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lunedì 15 dicembre 2014

La giustizia come virtù - A Sotto il Monte, il 13 dicembre 2014

Aggiungere alla fede la virtù (2Pt 1,5)
Le quattro virtù umane principali o virtù cardinali
Incontri al Priorato di Sant’Egidio in Fontanella

Leonardo Lenzi
Giustizia
sabato 13 dicembre 2014
Se uno ama la giustizia,
le virtù sono il frutto delle sue fatiche.
(Sap 8,7)

            Prima di parlare della giustizia, consentitemi un breve elogio del sentimento di ingiustizia.

            Una pubblicità di Carosello, negli anni ’70, aveva come protagonista un pulcino piccolo e nero, con un mezzo guscio d’uovo come copricapo, che – a conclusione delle sue avventure – finiva sempre per esclamare: è un’ingustizia, però! (Nancy J.-L., Il giusto e l’ingiusto, 2007)

Calimero ebbe una grande popolarità, perché rispecchiava tutti i bambini (e forse non soltanto loro). Chi ha una minima familiarità con i bambini sa benissimo che essi imparano molto presto a dire Non è giusto! e ben più tardi a dire E’ giusto.: perché per dire quest’ultima cosa occorre – almeno implicitamente – una teoria della giustizia, mentre Non è giusto! è come un grido che viene – come si suol dire, forse un po’ troppo, al giorno d’oggi - dalla pancia. E che cos’è a essere ingiusto? E’ ingiusto che non trovi parcheggio, che mi interroghino quando non sono preparato, che lei/lui mi abbia lasciato e debba soffrire così, che mi sia ammalato, che debba morire – infine questo, soprattutto, che debba morire, che muoia il mio amore, che muoiano i miei cari, che si muoia! Ma perché gridiamo così? A causa di cosa, e a quale giudice, a quale corte ci appelliamo? Dove c’è scritto che debba trovare parcheggio, che lei debba volermi bene, che debba essere in salute? Chi stabilisce che io debba vivere? Perché non parlo nei termini di fortuna o sfortuna? Sembrerebbe più sensato. Invece ci indigniamo: ma perché? Ci indigniamo perfino davanti a un terremoto, a un’inondazione: quegli avvenimenti che gli assicuratori americani chiamano, molto significativamente, Acts of God (escludono, infatti, ogni responsabilità umana, e quindi vengono assicurati con grande difficoltà e con grandi costi). Ciò che distingue l’ingiustizia dalla sfortuna è che la prima si collega alla possibilità di individuare un responsabile (Shklar, J. N.. I volti dell’ingiustizia. Iniquità o cattiva sorte?, 2000) L’ingiustizia che avvertiamo rivela che – più o meno consapevolmente – qualcosa in noi sussurra, o piuttosto grida, urla, che non sarebbe dovuta andare così. C’è un’impossibilità almeno psicologica – ma forse anche antropologica – di accettare un mondo in cui le cose semplicemente accadono; “la stessa colpevolizzazione di se stessi è più tollerabile della resa di fronte a una vita così assurda” scrive la Shklar. L’ingiustizia è un dito puntato verso un presunto colpevole. Presunto. perché chi può essere colpevole di un terremoto, o del fatto che la mia innamorata non mi corrisponde? La febbrile ingegnosità umana fa di tutto per trovarlo (si cerca chi potrebbe avere le competenze tali da consentirgli di prevedere i terremoti per poter incolparlo; nel mondo sanitario e ospedaliero ormai nemmeno un centenario muore senza che i parenti sospettino errori o episodi di malasanità, con ricadute certamente non positive sulla medicina), ma rimane che in certi casi non vi è né può essere alcun colpevole. Eppure ciò che sentiamo è ingiustizia. Una famosa Maestra dello Zen americana, Charlotte Joko Beck, cercando di spiegare come sarebbe infinitamente più lieve e infinitamente meno dolorosa l’esistenza se considerassimo noi stessi e gli altri come privi di un Io, faceva questo esempio: se mentre andiamo in barca su un lago siamo urtati da un’altra imbarcazione, la nostra reazione è molto diversa se quest’ultima ha qualcuno a bordo oppure è vuota e alla deriva; se è vuota non incolpiamo nessuno, magari ci diciamo che avremmo dovuto prestare più attenzione e proviamo a ridurre al minimo i danni; ma se c’è qualcuno, sulla barca, lo incolpiamo, ci mettiamo a litigare con lui, ci arrabbiamo. Con il massimo rispetto per questa Maestra, il punto è che, anche quando la barca è chiaramente priva di timoniere, noi ce lo mettiamo lo stesso, abbiamo una necessità interiore di trovarlo. Non sopportiamo che il male capiti a caso. In questo senso sul sentimento di ingiustizia si fonda un argomento esigenziale a favore dell’esistenza di Dio: dato che c’è il male deve esserci un responsabile, un colpevole, e ultimamente questo colpevole non può essere che Dio: e questo Dio bisogna processarlo, condannarlo e farlo morire, magari in Croce.

            Nel vostro cammino di Avvento dedicato alle virtù principali umane, dette cardinali,avete già approfondito la prudenza e la fortezza. Siete quindi familiari con il concetto di virtù, che come sapete non riguarda un singolo atto, ma un’attitudine, una disposizione, un habitus. La virtù è una inclinazione stabile alla realizzazione di un certo valore: qualcosa che quindi diventa una dimensione fondamentale e costante del mio essere nel mondo. Alzarsi al mattino per andare un’ora a correre all’inizio è difficilissimo: suona la sveglia, fuori è tutto buio, magari è freddo, magari piove, e io devo lasciare il tepore da tana del letto, e cominciano i pensieri: ma poi cosa cambia se corro? starò davvero meglio? e se cominciassi domani, o magari dopo le feste? sì, dai: dopo le feste, anzi, anno nuovo vita nuova. Invece no, ecco, mi alzo, mi infilo la maglietta, i pantaloncini, mi allaccio le scarpe, esco e faccio la mia ora di corsa. Difficilissimo, eroico. Ma, piano-piano, diventa più facile, comincio a entrare nel ritmo di quella sveglia mattutina e di quella corsa, non mi fa più fatica, non mi sembra più di dover smuovere le montagne, anzi, posso arrivare a un certo punto in cui soffrirei a star fermo: sono diventato virtuoso. Certo, ho faticato e anche sofferto, ma adesso mi sento meglio, più in salute, più vigoroso, magari anche il mio umore è migliorato e non sono più depresso. Come dice Luigi Lombardi Vallauri: le virtù sono abitudini difficili che rendono la vita facile, i vizi sono abitudini facili che rendono la vita difficile.

            Ora, che tipo di virtù è la giustizia? “La giustizia è la volontà costante e perpetua di attribuire a ciascuno il suo diritto”: è la definizione di Ulpiano nel Digesto, siamo nel terzo secolo dopo Cristo. Suum cuique tribuere o più in breve – come comparve nel 1862, in funzione controrivoluzionaria, sulla testata dell’Osservatore Romano - Unicuique Suum. San Tommaso (Pieper J., La giustizia, 2000) riprende la definizione del grande giurista romano: “Giustizia è quell’atteggiamento (habitus) in virtù del quale un uomo di ferma e costante volontà attribuisce a ciascuno il proprio diritto” (IIa IIae 58, 1). Resta da capire che cosa è questo suum, perché – prima di poter parlare di giustizia – sembra necessario comprendere in che senso qualcosa possa spettare a qualcuno. San Tommaso dice che ciò può accadere in ragione di contratti, disposizioni di legge, etc., ma anche ex ipsa natura rei, per sua stessa natura. Compare sullo sfondo la complicata questione del diritto naturale.

            Un’altra considerazione forse già nota è che la giustizia è la virtù delle relazioni. Iustitia est ad alterum. “Ciò che distingue la giustizia dalle restanti virtù è la proprietà di regolare l’uomo in tutto quanto è in relazione con gli altri (…) mentre invece le altre virtù perfezionano l’uomo solo in ciò che gli spetta, considerato in se stesso” (IIa IIae 57, 1). Joseph Pieper, celebre commentatore di Tommaso, richiama al fatto che qui il concetto di altri deve essere inteso in senso forte. Qui altri vale quasi per estranei. In senso stretto non può essere esercitata la virtù della giustizia nei confronti di una persona che si ama. E’ invece dove non c’è l’amore che il riconoscimento dell’altro in quanto tale integra il comportamento giusto (in questo altro è inclusa naturalmente la comunità, il tutto sociale). Questo riconoscimento è dovuto. Quindi è chiamato alla giustizia chi è debitore. La condizione di debitore, essenziale per la giustizia, chiarisce come non sia possibile in senso stretto affermare che Dio è giusto, poiché non deve niente alle creature. Tommaso cita in proposito Anselmo che formula un vero e proprio koan dell’imperscrutabilità del volere divino: “Se Tu punisci il malvagio, fai cosa giusta; giacché egli se lo merita. Se tu risparmi il malvagio, fai cosa giusta; giacché così si addice alla Tua bontà” (Proslogion, 10).

            Non c’è evidentemente il tempo per esaminare nel dettaglio le forme della giustizia (commutativa tra persone singole; legale tra le persone singole e il tutto sociale; distributiva tra il tutto sociale e le persone singole). Concludiamo dicendo che la giustizia ha, rispetto alle altre virtù, una dimensione estrinseca più netta. La giustizia si realizza – e si valuta – a partire da azioni esteriori. Nella fortezza e nella temperanza è necessario indagare il cosiddetto foro interno, mentre si può giudicare la giustizia a partire dal comportamento esterno. Commenta Pieper: “Nessuno dal di fuori è in grado di dire quanto vino mi sia lecito bere senza venir meno alla temperanza, all’opposto tutti hanno la possibilità di constatare da un punto di vista ‘oggettivo’ quanto io debba all’oste”. Pur essendoci effettivamente, nell’ambito della giustizia, un certo sbilanciamento sul fatto rispetto all’intenzione, è però vero che Tommaso insiste che si debba non soltanto fare il giusto, ma occorra essere giusti. Il giusto non è solo chi agisce giustamente, ma chi compie la giustizia con gioia e senza alcuna esitazione  (IIa IIae 107, 4).

Vorrei adesso provare ad accostare a questa visione classica (anche se profonda), nitida, pulita, geometrica della giustizia il racconto di una circostanza che mi capita praticamente tutte le mattine e tutte le sere. Succede quasi sempre, prendendo la metropolitana di Milano, che prima o poi compaia davanti un mendicante che chiede del denaro: certamente è un altro, nel senso di Tommaso. Proviamo a immaginarci il vagone pieno di gente stanca dopo la giornata di lavoro, la maggior parte impegnata a compulsare gli smartphone, altri con le cuffiette; noi siamo seduti. Ecco che davanti a noi compare quest’uomo, con quel volto ambivalente che spesso hanno i mendicanti, che sembra che facciano finta anche quando sono autentici. La mano tesa: proviamo a immaginarcelo realisticamente. ‘Che scocciatura, speriamo che vada via’: e invece no, rimane fermo, in piedi. Cosa facciamo? A questo altro certamente non amato, non simpatico, cosa è dovuto? Gli siamo in debito? Sembrerebbe di no: tanto è vero che di lui si dice (o meglio: si diceva) che chiede la carità, intendendo che se caccio la mano in tasca, trovo una moneta e gliela do, non esercito la virtù della giustizia, semmai quella della carità, che sarà anche più nobile ma non mi obbliga. Non gli devo nulla, semmai posso essere buono con lui, o piuttosto ritengo che un euro sia un prezzo ragionevole per togliermelo di torno. Eppure dentro di noi sentiamo che qualcosa accade: si mette in moto la coscienza morale. Supponiamo che io abbia superato questa visione priva di senso – anche se coccolata per molti secoli dalla Chiesa stessa – e che abbia ben chiaro che verso il povero io ho non soltanto la possibilità della carità, ma soprattutto il dovere della giustizia, ebbene il problema rimane. Che cosa è giusto fare? Dargli un euro e dimenticarlo? Non dargli niente, perché con quella moneta alimenterei il racket, lo sfruttamento, l’idea che si possa vivere senza lavorare, non lo incentiverei a cambiare vita? Tutte buone ragioni. Oppure devo fare come quei benpensanti che magari si rivolgerebbero a lui e gli direbbero: ‘Non ti do niente, ti ubriacheresti, ti drogheresti. Però ti compro un panino’ (e lo farebbero, spendendo anche di più, perché un panino al bar della metro costa tre euro e cinquanta); ma susciterebbero la collera di Bernanos: ‘Un ventre de misérable a plus besoin d’illusions que de pain’ (Journal d’un curé de campagne). Ottime cose, e già penso di lasciar perdere. Ma il suo sguardo non mi lascia. Da una parte ci sono delle ragioni, buone e meno buone, dall’altra c’è quello sguardo e il suo interpellarmi, quel Tu: non è anche questa una ragione? Dove sta la giustizia? Il punto è che non lo so. Sono condannato a non saperlo. E finora non c’è stato un Papa che all’Angelus si sia affacciato al balcone e mi abbia detto come fare: che non lo sappia neppure lui? Papa Francesco, si dice – ed è vero-, mette al centro del suo magistero i poveri. Benissimo. Però ho parlato con persone buonissime che spendono la propria esistenza in organizzazioni come la Caritas che mi hanno raccontato come Papa Francesco abbia reso loro la vita molto difficile, perché quando viene qualcuno a chiedere e loro ritengono giusto, nella complessità di tutto ciò che questo significa, non dare (per i più diversi e buoni motivi) i poveri gridano loro dietro: Siete contro il Papa!

In realtà siamo dentro un dilemma tragico, lo dico in senso letterale riferendomi ai tragici greci. L’impasse che sentiamo è esattamente l’indicazione che ci troviamo nel campo della tragedia. I greci conoscevano parole, o piuttosto due forme per esprimere la giustizia: themis e dike (Bearzot C., La giustizia nella Grecia antica, 2008). Themis (che deriva dal verbo tithemi: porre in essere) è una dimensione (una divinità) statica, ha a che fare con ciò che è stabilito dall’alto, con le leggi della natura e dell’umanità, ma è evidente in essa la radice trascendente. Come dèa è arcaica, precede Zeus e ne diventa consorte, ed è madre di Dike (collegata con la radice *deik-, indicare), la quale invece è un po’ collocata in mezzo fra il mondo celeste e quello ctonio, tenebroso, delle Erinni. Come concetto, Dike è dinamico, indica il giusto fra gli uomini, ma un giusto in divenire, un giusto tutto da realizzare. Ricordate Antigone (narrata da Sofocle): figlia di Edipo, essa sceglie di trasgredire le leggi emanate dal nuovo re di Tebe Creonte e di dare ugualmente sepoltura al fratello Polinice: dov’è Dike? Di più: nella Medea di Euripide, dopo che lei ha ucciso i figli per vendicarsi del tradimento – commesso per ragioni di realpolitik – di Giasone, il coro si chiede se Dike non si sia manifestata anche in questa azione. Le cronache di questi giorni ci propongono ipotesi di infanticidio: penso a Ragusa, dove i magistrati ipotizzano che una madre abbia strangolato il proprio figlio di otto anni con una fascetta da elettricista; o a Sanremo, dove una mamma ha preso il bimbo di dieci mesi, alle due di notte si è tuffata in mare e ha nuotato con il piccolo nel marsupio, abbandonandolo al largo. Diritto e mezzi di comunicazione si sono dati da fare per semplificare e involgarire i fatti. I giudici hanno contestato l’aggravante della crudeltà: si può essere più assurdi? Ecco apparecchiata e pronta la supercattiva per noi giusti indaffarati in compere prenatalizie. Ma Euripide si chiederebbe come facciamo a sapere che anche in questi casi non si sia manifestata un’imperscrutabile giustizia, sì, in questi atti totalmente ripugnanti alla coscienza morale ordinaria.

            Forse siamo condannati a essere ingiusti. Questo fa paura ai filosofi, agli studiosi di morale, tanto è vero che spinto da questo orrore Platone gettò nel fuoco tutte le tragedie che aveva composto, così che noi adesso siamo privi delle tragedie di Platone. Ma non è tollerabile pensare che la giustizia possa manifestarsi nell’uccisione dei figli. I filosofi non possono sopportarlo: un po’ di più gli scrittori, i poeti.

            Dal 1998 mi occupo di Giustizia Riparativa, e l’esperienza fatta in questi anni, l’aver incontrato tante vittime e tanti rei, persone che avevano subito e commesso atti talora gravi e gravissimi, mi fa dire che le cose stanno nel modo intuito e meravigliosamente espresso dai tragici greci. Quando i giudici ci consegnano queste esistenze sembra tutto abbastanza chiaro, c’è un colpevole, c’è un offeso. Ma quando cominciano a parlarsi, ecco che molto si confonde, ed è difficile dire dove stia Dike, e forse sta un po’ qui e un po’ lì, o forse tutta qui e tutta lì, o forse non la si trova affatto. Meglio: Dike è un dito puntato verso qualcosa da realizzare, da compiere. Si spalancano, nel laico rito della mediazione, le voragini del riconoscimento incolmabile dovuto per giustizia, e non rimane che testimoniarlo. Non è un caso che la persona che ha messo a punto il modello di mediazione che pratichiamo – Jacqueline Morineau, che forse qualcuno di noi ha anche conosciuto, essendo stata di recente anche a Bergamo – sia un’archeologa e si sia ispirata precisamente alla tragedia greca con le sue scansioni interne.

            Siamo e saremo sempre ingiusti perché è vero che giustizia è rendere all’altro, all’estraneo, ciò che gli è dovuto. Ma gli devo tutto. Gli devo l’amore (Nancy J.-L., Il giusto e l’ingiusto, 2007), gli devo tutto, gli devo un riconoscimento infinito, e come tale il mio debito è inestinguibile. Come forse sapete attorno a Yad vaShem (il museo della Shoah a Gerusalemme) sono piantati tanti ulivi, e ciascuno è dedicato a un Giusto fra le Nazioni (Hasid umot haOlam). Chi sono questi Giusti? Sono coloro che hanno visto negli ebrei perseguitati dal nazifascismo persone verso le quali erano in debito. Consapevolmente o non consapevolmente ne erano certi. Dovevano a loro tutto, dovevano loro il riconoscimento infinito, e quindi anche la vita. Molti infatti sono stati uccisi per questo. Non sono però i Buoni fra le Genti, ma i Giusti (Hasidai). Rimane da sapere quale sia oggi il volto di questi nostri creditori. Il mendicante del metrò è uno di quei volti?

Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto. Mentre però stava pensando a queste cose, ecco che gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati».
Mt 1, 28-21

Considerando il tempo che state e stiamo vivendo, vorrei concludere l’incontro di questa sera con una breve riflessione a proposito dell’attributo di Giusto conferito dall’evangelista Matteo a Giuseppe lo sposo di Maria all’inizio del suo racconto. Questo attributo, lo abbiamo sentito, è messo in connessione con uno specifico comportamento di Giuseppe nei confronti della sua sposa.

Vi invito ad andare a vedere il film Viviane, di Shlomi e Ronit Elkabetz. In Israele, per gli ebrei, il divorzio civile non esiste, e per ottenerlo si deve andare davanti a un tribunale rabbinico il quale, a fronte di buone ragioni, deve persuadere il marito a produrre il libello di ripudio. Tutto si fonda sui precetti della Torah (Dt 22, 13-14,20-21 – 24,1-4).

            Giuseppe viene chiamato dikaios, giusto, traduzione dell’ebraico tsaddiq. E’ interessante che il Vangelo porti a pensare che è proprio in virtù di questa sua giustizia che Giuseppe può andare oltre la Legge, rifiutando la possibilità di deigmatizzare (trasferire, denunciare, svergognare, disonorare, compromettere, ripudiare, esporre all’infamia) Maria. Anche qui Giuseppe non è chiamato buono, ma giusto. Giuseppe è un personaggio bellissimo. E’ bellissimo vedere come la sua integrità sia in grado di flettersi alle esigenze anche trasgressive del disegno di Dio. Nei primi anni del Novecento Paul Claudel pubblica un dramma intitolato Annuncio a Maria. Pietro di Craon, un costruttore di cattedrali lebbroso, è sedotto dalla bellezza incantata di Violaine Vercors, la figlia del Signore di Montsanvierge. Dopo aver cercato di farle violenza si allontana dal castello, ma prima lei lo bacia, lo bacia di tenerezza, di perdono: e baciandolo contrae la lebbra. Poi la stessa Violaine viene fidanzata dal padre al suo innamorato, Giacomo Hury, e c’è un dialogo d’amore bellissimo fra loro. Giacomo – potremmo dire noi – pensa a themis: “Io sono il futuro Signore di Montsanvierge, tuo padre ti ha dato a me, è nella logica che sia così, questo è giusto”. Ma Violaine, consapevole della sua malattia, ha a che fare con un diverso tipo di giustizia, più simile a quella dei tragici. Quando mostra a Giacomo i segni della lebbra, in nome della giustizia lui la scaccia (anche se alla fine lei avrà una glorificazione proprio nella cattedrale che verrà costruita in onore di santa Giustizia). Giuseppe no. Per quanto non capisca nulla, è chiaro che la sua giustizia lo chiama a un comportamento differente. E per questo si immerge in una riflessione che si aprirà al sogno e, nel sogno, alla rivelazione di Dio.


            Aristotele, proprio nel cuore della sua Etica a Nicomaco, ha una espressione bellissima: “Né la stella del vespro né la stella del mattino sono tanto degne di meraviglia quanto la giustizia”. Trovo straordinario paragonare la giustizia alla bellezza luminosa di una stella. Sia quindi la giustizia, che sta dentro e che va oltre le leggi e la Legge, a brillare quale stella nel presepe interiore di quest’anno.

Sotto: Cristo morto tra Carità E Giustizia - Lelio Orsi, XVI secolo