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lunedì 15 dicembre 2014

La giustizia come virtù - A Sotto il Monte, il 13 dicembre 2014

Aggiungere alla fede la virtù (2Pt 1,5)
Le quattro virtù umane principali o virtù cardinali
Incontri al Priorato di Sant’Egidio in Fontanella

Leonardo Lenzi
Giustizia
sabato 13 dicembre 2014
Se uno ama la giustizia,
le virtù sono il frutto delle sue fatiche.
(Sap 8,7)

            Prima di parlare della giustizia, consentitemi un breve elogio del sentimento di ingiustizia.

            Una pubblicità di Carosello, negli anni ’70, aveva come protagonista un pulcino piccolo e nero, con un mezzo guscio d’uovo come copricapo, che – a conclusione delle sue avventure – finiva sempre per esclamare: è un’ingustizia, però! (Nancy J.-L., Il giusto e l’ingiusto, 2007)

Calimero ebbe una grande popolarità, perché rispecchiava tutti i bambini (e forse non soltanto loro). Chi ha una minima familiarità con i bambini sa benissimo che essi imparano molto presto a dire Non è giusto! e ben più tardi a dire E’ giusto.: perché per dire quest’ultima cosa occorre – almeno implicitamente – una teoria della giustizia, mentre Non è giusto! è come un grido che viene – come si suol dire, forse un po’ troppo, al giorno d’oggi - dalla pancia. E che cos’è a essere ingiusto? E’ ingiusto che non trovi parcheggio, che mi interroghino quando non sono preparato, che lei/lui mi abbia lasciato e debba soffrire così, che mi sia ammalato, che debba morire – infine questo, soprattutto, che debba morire, che muoia il mio amore, che muoiano i miei cari, che si muoia! Ma perché gridiamo così? A causa di cosa, e a quale giudice, a quale corte ci appelliamo? Dove c’è scritto che debba trovare parcheggio, che lei debba volermi bene, che debba essere in salute? Chi stabilisce che io debba vivere? Perché non parlo nei termini di fortuna o sfortuna? Sembrerebbe più sensato. Invece ci indigniamo: ma perché? Ci indigniamo perfino davanti a un terremoto, a un’inondazione: quegli avvenimenti che gli assicuratori americani chiamano, molto significativamente, Acts of God (escludono, infatti, ogni responsabilità umana, e quindi vengono assicurati con grande difficoltà e con grandi costi). Ciò che distingue l’ingiustizia dalla sfortuna è che la prima si collega alla possibilità di individuare un responsabile (Shklar, J. N.. I volti dell’ingiustizia. Iniquità o cattiva sorte?, 2000) L’ingiustizia che avvertiamo rivela che – più o meno consapevolmente – qualcosa in noi sussurra, o piuttosto grida, urla, che non sarebbe dovuta andare così. C’è un’impossibilità almeno psicologica – ma forse anche antropologica – di accettare un mondo in cui le cose semplicemente accadono; “la stessa colpevolizzazione di se stessi è più tollerabile della resa di fronte a una vita così assurda” scrive la Shklar. L’ingiustizia è un dito puntato verso un presunto colpevole. Presunto. perché chi può essere colpevole di un terremoto, o del fatto che la mia innamorata non mi corrisponde? La febbrile ingegnosità umana fa di tutto per trovarlo (si cerca chi potrebbe avere le competenze tali da consentirgli di prevedere i terremoti per poter incolparlo; nel mondo sanitario e ospedaliero ormai nemmeno un centenario muore senza che i parenti sospettino errori o episodi di malasanità, con ricadute certamente non positive sulla medicina), ma rimane che in certi casi non vi è né può essere alcun colpevole. Eppure ciò che sentiamo è ingiustizia. Una famosa Maestra dello Zen americana, Charlotte Joko Beck, cercando di spiegare come sarebbe infinitamente più lieve e infinitamente meno dolorosa l’esistenza se considerassimo noi stessi e gli altri come privi di un Io, faceva questo esempio: se mentre andiamo in barca su un lago siamo urtati da un’altra imbarcazione, la nostra reazione è molto diversa se quest’ultima ha qualcuno a bordo oppure è vuota e alla deriva; se è vuota non incolpiamo nessuno, magari ci diciamo che avremmo dovuto prestare più attenzione e proviamo a ridurre al minimo i danni; ma se c’è qualcuno, sulla barca, lo incolpiamo, ci mettiamo a litigare con lui, ci arrabbiamo. Con il massimo rispetto per questa Maestra, il punto è che, anche quando la barca è chiaramente priva di timoniere, noi ce lo mettiamo lo stesso, abbiamo una necessità interiore di trovarlo. Non sopportiamo che il male capiti a caso. In questo senso sul sentimento di ingiustizia si fonda un argomento esigenziale a favore dell’esistenza di Dio: dato che c’è il male deve esserci un responsabile, un colpevole, e ultimamente questo colpevole non può essere che Dio: e questo Dio bisogna processarlo, condannarlo e farlo morire, magari in Croce.

            Nel vostro cammino di Avvento dedicato alle virtù principali umane, dette cardinali,avete già approfondito la prudenza e la fortezza. Siete quindi familiari con il concetto di virtù, che come sapete non riguarda un singolo atto, ma un’attitudine, una disposizione, un habitus. La virtù è una inclinazione stabile alla realizzazione di un certo valore: qualcosa che quindi diventa una dimensione fondamentale e costante del mio essere nel mondo. Alzarsi al mattino per andare un’ora a correre all’inizio è difficilissimo: suona la sveglia, fuori è tutto buio, magari è freddo, magari piove, e io devo lasciare il tepore da tana del letto, e cominciano i pensieri: ma poi cosa cambia se corro? starò davvero meglio? e se cominciassi domani, o magari dopo le feste? sì, dai: dopo le feste, anzi, anno nuovo vita nuova. Invece no, ecco, mi alzo, mi infilo la maglietta, i pantaloncini, mi allaccio le scarpe, esco e faccio la mia ora di corsa. Difficilissimo, eroico. Ma, piano-piano, diventa più facile, comincio a entrare nel ritmo di quella sveglia mattutina e di quella corsa, non mi fa più fatica, non mi sembra più di dover smuovere le montagne, anzi, posso arrivare a un certo punto in cui soffrirei a star fermo: sono diventato virtuoso. Certo, ho faticato e anche sofferto, ma adesso mi sento meglio, più in salute, più vigoroso, magari anche il mio umore è migliorato e non sono più depresso. Come dice Luigi Lombardi Vallauri: le virtù sono abitudini difficili che rendono la vita facile, i vizi sono abitudini facili che rendono la vita difficile.

            Ora, che tipo di virtù è la giustizia? “La giustizia è la volontà costante e perpetua di attribuire a ciascuno il suo diritto”: è la definizione di Ulpiano nel Digesto, siamo nel terzo secolo dopo Cristo. Suum cuique tribuere o più in breve – come comparve nel 1862, in funzione controrivoluzionaria, sulla testata dell’Osservatore Romano - Unicuique Suum. San Tommaso (Pieper J., La giustizia, 2000) riprende la definizione del grande giurista romano: “Giustizia è quell’atteggiamento (habitus) in virtù del quale un uomo di ferma e costante volontà attribuisce a ciascuno il proprio diritto” (IIa IIae 58, 1). Resta da capire che cosa è questo suum, perché – prima di poter parlare di giustizia – sembra necessario comprendere in che senso qualcosa possa spettare a qualcuno. San Tommaso dice che ciò può accadere in ragione di contratti, disposizioni di legge, etc., ma anche ex ipsa natura rei, per sua stessa natura. Compare sullo sfondo la complicata questione del diritto naturale.

            Un’altra considerazione forse già nota è che la giustizia è la virtù delle relazioni. Iustitia est ad alterum. “Ciò che distingue la giustizia dalle restanti virtù è la proprietà di regolare l’uomo in tutto quanto è in relazione con gli altri (…) mentre invece le altre virtù perfezionano l’uomo solo in ciò che gli spetta, considerato in se stesso” (IIa IIae 57, 1). Joseph Pieper, celebre commentatore di Tommaso, richiama al fatto che qui il concetto di altri deve essere inteso in senso forte. Qui altri vale quasi per estranei. In senso stretto non può essere esercitata la virtù della giustizia nei confronti di una persona che si ama. E’ invece dove non c’è l’amore che il riconoscimento dell’altro in quanto tale integra il comportamento giusto (in questo altro è inclusa naturalmente la comunità, il tutto sociale). Questo riconoscimento è dovuto. Quindi è chiamato alla giustizia chi è debitore. La condizione di debitore, essenziale per la giustizia, chiarisce come non sia possibile in senso stretto affermare che Dio è giusto, poiché non deve niente alle creature. Tommaso cita in proposito Anselmo che formula un vero e proprio koan dell’imperscrutabilità del volere divino: “Se Tu punisci il malvagio, fai cosa giusta; giacché egli se lo merita. Se tu risparmi il malvagio, fai cosa giusta; giacché così si addice alla Tua bontà” (Proslogion, 10).

            Non c’è evidentemente il tempo per esaminare nel dettaglio le forme della giustizia (commutativa tra persone singole; legale tra le persone singole e il tutto sociale; distributiva tra il tutto sociale e le persone singole). Concludiamo dicendo che la giustizia ha, rispetto alle altre virtù, una dimensione estrinseca più netta. La giustizia si realizza – e si valuta – a partire da azioni esteriori. Nella fortezza e nella temperanza è necessario indagare il cosiddetto foro interno, mentre si può giudicare la giustizia a partire dal comportamento esterno. Commenta Pieper: “Nessuno dal di fuori è in grado di dire quanto vino mi sia lecito bere senza venir meno alla temperanza, all’opposto tutti hanno la possibilità di constatare da un punto di vista ‘oggettivo’ quanto io debba all’oste”. Pur essendoci effettivamente, nell’ambito della giustizia, un certo sbilanciamento sul fatto rispetto all’intenzione, è però vero che Tommaso insiste che si debba non soltanto fare il giusto, ma occorra essere giusti. Il giusto non è solo chi agisce giustamente, ma chi compie la giustizia con gioia e senza alcuna esitazione  (IIa IIae 107, 4).

Vorrei adesso provare ad accostare a questa visione classica (anche se profonda), nitida, pulita, geometrica della giustizia il racconto di una circostanza che mi capita praticamente tutte le mattine e tutte le sere. Succede quasi sempre, prendendo la metropolitana di Milano, che prima o poi compaia davanti un mendicante che chiede del denaro: certamente è un altro, nel senso di Tommaso. Proviamo a immaginarci il vagone pieno di gente stanca dopo la giornata di lavoro, la maggior parte impegnata a compulsare gli smartphone, altri con le cuffiette; noi siamo seduti. Ecco che davanti a noi compare quest’uomo, con quel volto ambivalente che spesso hanno i mendicanti, che sembra che facciano finta anche quando sono autentici. La mano tesa: proviamo a immaginarcelo realisticamente. ‘Che scocciatura, speriamo che vada via’: e invece no, rimane fermo, in piedi. Cosa facciamo? A questo altro certamente non amato, non simpatico, cosa è dovuto? Gli siamo in debito? Sembrerebbe di no: tanto è vero che di lui si dice (o meglio: si diceva) che chiede la carità, intendendo che se caccio la mano in tasca, trovo una moneta e gliela do, non esercito la virtù della giustizia, semmai quella della carità, che sarà anche più nobile ma non mi obbliga. Non gli devo nulla, semmai posso essere buono con lui, o piuttosto ritengo che un euro sia un prezzo ragionevole per togliermelo di torno. Eppure dentro di noi sentiamo che qualcosa accade: si mette in moto la coscienza morale. Supponiamo che io abbia superato questa visione priva di senso – anche se coccolata per molti secoli dalla Chiesa stessa – e che abbia ben chiaro che verso il povero io ho non soltanto la possibilità della carità, ma soprattutto il dovere della giustizia, ebbene il problema rimane. Che cosa è giusto fare? Dargli un euro e dimenticarlo? Non dargli niente, perché con quella moneta alimenterei il racket, lo sfruttamento, l’idea che si possa vivere senza lavorare, non lo incentiverei a cambiare vita? Tutte buone ragioni. Oppure devo fare come quei benpensanti che magari si rivolgerebbero a lui e gli direbbero: ‘Non ti do niente, ti ubriacheresti, ti drogheresti. Però ti compro un panino’ (e lo farebbero, spendendo anche di più, perché un panino al bar della metro costa tre euro e cinquanta); ma susciterebbero la collera di Bernanos: ‘Un ventre de misérable a plus besoin d’illusions que de pain’ (Journal d’un curé de campagne). Ottime cose, e già penso di lasciar perdere. Ma il suo sguardo non mi lascia. Da una parte ci sono delle ragioni, buone e meno buone, dall’altra c’è quello sguardo e il suo interpellarmi, quel Tu: non è anche questa una ragione? Dove sta la giustizia? Il punto è che non lo so. Sono condannato a non saperlo. E finora non c’è stato un Papa che all’Angelus si sia affacciato al balcone e mi abbia detto come fare: che non lo sappia neppure lui? Papa Francesco, si dice – ed è vero-, mette al centro del suo magistero i poveri. Benissimo. Però ho parlato con persone buonissime che spendono la propria esistenza in organizzazioni come la Caritas che mi hanno raccontato come Papa Francesco abbia reso loro la vita molto difficile, perché quando viene qualcuno a chiedere e loro ritengono giusto, nella complessità di tutto ciò che questo significa, non dare (per i più diversi e buoni motivi) i poveri gridano loro dietro: Siete contro il Papa!

In realtà siamo dentro un dilemma tragico, lo dico in senso letterale riferendomi ai tragici greci. L’impasse che sentiamo è esattamente l’indicazione che ci troviamo nel campo della tragedia. I greci conoscevano parole, o piuttosto due forme per esprimere la giustizia: themis e dike (Bearzot C., La giustizia nella Grecia antica, 2008). Themis (che deriva dal verbo tithemi: porre in essere) è una dimensione (una divinità) statica, ha a che fare con ciò che è stabilito dall’alto, con le leggi della natura e dell’umanità, ma è evidente in essa la radice trascendente. Come dèa è arcaica, precede Zeus e ne diventa consorte, ed è madre di Dike (collegata con la radice *deik-, indicare), la quale invece è un po’ collocata in mezzo fra il mondo celeste e quello ctonio, tenebroso, delle Erinni. Come concetto, Dike è dinamico, indica il giusto fra gli uomini, ma un giusto in divenire, un giusto tutto da realizzare. Ricordate Antigone (narrata da Sofocle): figlia di Edipo, essa sceglie di trasgredire le leggi emanate dal nuovo re di Tebe Creonte e di dare ugualmente sepoltura al fratello Polinice: dov’è Dike? Di più: nella Medea di Euripide, dopo che lei ha ucciso i figli per vendicarsi del tradimento – commesso per ragioni di realpolitik – di Giasone, il coro si chiede se Dike non si sia manifestata anche in questa azione. Le cronache di questi giorni ci propongono ipotesi di infanticidio: penso a Ragusa, dove i magistrati ipotizzano che una madre abbia strangolato il proprio figlio di otto anni con una fascetta da elettricista; o a Sanremo, dove una mamma ha preso il bimbo di dieci mesi, alle due di notte si è tuffata in mare e ha nuotato con il piccolo nel marsupio, abbandonandolo al largo. Diritto e mezzi di comunicazione si sono dati da fare per semplificare e involgarire i fatti. I giudici hanno contestato l’aggravante della crudeltà: si può essere più assurdi? Ecco apparecchiata e pronta la supercattiva per noi giusti indaffarati in compere prenatalizie. Ma Euripide si chiederebbe come facciamo a sapere che anche in questi casi non si sia manifestata un’imperscrutabile giustizia, sì, in questi atti totalmente ripugnanti alla coscienza morale ordinaria.

            Forse siamo condannati a essere ingiusti. Questo fa paura ai filosofi, agli studiosi di morale, tanto è vero che spinto da questo orrore Platone gettò nel fuoco tutte le tragedie che aveva composto, così che noi adesso siamo privi delle tragedie di Platone. Ma non è tollerabile pensare che la giustizia possa manifestarsi nell’uccisione dei figli. I filosofi non possono sopportarlo: un po’ di più gli scrittori, i poeti.

            Dal 1998 mi occupo di Giustizia Riparativa, e l’esperienza fatta in questi anni, l’aver incontrato tante vittime e tanti rei, persone che avevano subito e commesso atti talora gravi e gravissimi, mi fa dire che le cose stanno nel modo intuito e meravigliosamente espresso dai tragici greci. Quando i giudici ci consegnano queste esistenze sembra tutto abbastanza chiaro, c’è un colpevole, c’è un offeso. Ma quando cominciano a parlarsi, ecco che molto si confonde, ed è difficile dire dove stia Dike, e forse sta un po’ qui e un po’ lì, o forse tutta qui e tutta lì, o forse non la si trova affatto. Meglio: Dike è un dito puntato verso qualcosa da realizzare, da compiere. Si spalancano, nel laico rito della mediazione, le voragini del riconoscimento incolmabile dovuto per giustizia, e non rimane che testimoniarlo. Non è un caso che la persona che ha messo a punto il modello di mediazione che pratichiamo – Jacqueline Morineau, che forse qualcuno di noi ha anche conosciuto, essendo stata di recente anche a Bergamo – sia un’archeologa e si sia ispirata precisamente alla tragedia greca con le sue scansioni interne.

            Siamo e saremo sempre ingiusti perché è vero che giustizia è rendere all’altro, all’estraneo, ciò che gli è dovuto. Ma gli devo tutto. Gli devo l’amore (Nancy J.-L., Il giusto e l’ingiusto, 2007), gli devo tutto, gli devo un riconoscimento infinito, e come tale il mio debito è inestinguibile. Come forse sapete attorno a Yad vaShem (il museo della Shoah a Gerusalemme) sono piantati tanti ulivi, e ciascuno è dedicato a un Giusto fra le Nazioni (Hasid umot haOlam). Chi sono questi Giusti? Sono coloro che hanno visto negli ebrei perseguitati dal nazifascismo persone verso le quali erano in debito. Consapevolmente o non consapevolmente ne erano certi. Dovevano a loro tutto, dovevano loro il riconoscimento infinito, e quindi anche la vita. Molti infatti sono stati uccisi per questo. Non sono però i Buoni fra le Genti, ma i Giusti (Hasidai). Rimane da sapere quale sia oggi il volto di questi nostri creditori. Il mendicante del metrò è uno di quei volti?

Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto. Mentre però stava pensando a queste cose, ecco che gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati».
Mt 1, 28-21

Considerando il tempo che state e stiamo vivendo, vorrei concludere l’incontro di questa sera con una breve riflessione a proposito dell’attributo di Giusto conferito dall’evangelista Matteo a Giuseppe lo sposo di Maria all’inizio del suo racconto. Questo attributo, lo abbiamo sentito, è messo in connessione con uno specifico comportamento di Giuseppe nei confronti della sua sposa.

Vi invito ad andare a vedere il film Viviane, di Shlomi e Ronit Elkabetz. In Israele, per gli ebrei, il divorzio civile non esiste, e per ottenerlo si deve andare davanti a un tribunale rabbinico il quale, a fronte di buone ragioni, deve persuadere il marito a produrre il libello di ripudio. Tutto si fonda sui precetti della Torah (Dt 22, 13-14,20-21 – 24,1-4).

            Giuseppe viene chiamato dikaios, giusto, traduzione dell’ebraico tsaddiq. E’ interessante che il Vangelo porti a pensare che è proprio in virtù di questa sua giustizia che Giuseppe può andare oltre la Legge, rifiutando la possibilità di deigmatizzare (trasferire, denunciare, svergognare, disonorare, compromettere, ripudiare, esporre all’infamia) Maria. Anche qui Giuseppe non è chiamato buono, ma giusto. Giuseppe è un personaggio bellissimo. E’ bellissimo vedere come la sua integrità sia in grado di flettersi alle esigenze anche trasgressive del disegno di Dio. Nei primi anni del Novecento Paul Claudel pubblica un dramma intitolato Annuncio a Maria. Pietro di Craon, un costruttore di cattedrali lebbroso, è sedotto dalla bellezza incantata di Violaine Vercors, la figlia del Signore di Montsanvierge. Dopo aver cercato di farle violenza si allontana dal castello, ma prima lei lo bacia, lo bacia di tenerezza, di perdono: e baciandolo contrae la lebbra. Poi la stessa Violaine viene fidanzata dal padre al suo innamorato, Giacomo Hury, e c’è un dialogo d’amore bellissimo fra loro. Giacomo – potremmo dire noi – pensa a themis: “Io sono il futuro Signore di Montsanvierge, tuo padre ti ha dato a me, è nella logica che sia così, questo è giusto”. Ma Violaine, consapevole della sua malattia, ha a che fare con un diverso tipo di giustizia, più simile a quella dei tragici. Quando mostra a Giacomo i segni della lebbra, in nome della giustizia lui la scaccia (anche se alla fine lei avrà una glorificazione proprio nella cattedrale che verrà costruita in onore di santa Giustizia). Giuseppe no. Per quanto non capisca nulla, è chiaro che la sua giustizia lo chiama a un comportamento differente. E per questo si immerge in una riflessione che si aprirà al sogno e, nel sogno, alla rivelazione di Dio.


            Aristotele, proprio nel cuore della sua Etica a Nicomaco, ha una espressione bellissima: “Né la stella del vespro né la stella del mattino sono tanto degne di meraviglia quanto la giustizia”. Trovo straordinario paragonare la giustizia alla bellezza luminosa di una stella. Sia quindi la giustizia, che sta dentro e che va oltre le leggi e la Legge, a brillare quale stella nel presepe interiore di quest’anno.

Sotto: Cristo morto tra Carità E Giustizia - Lelio Orsi, XVI secolo


venerdì 24 ottobre 2014

Sull'invecchiare. A Lecco, il 24 ottobre 2014

Convegno
Progetto ANASTASIS. Prospettive di integrazione tra servizi e comunità
a sostegno della famiglia in un territorio che invecchia
Venerdì 24 ottobre 2014 – Lecco
Vivere in una comunità che invecchia: vissuti, bisogni, desideri
(Leonardo Lenzi)




Chiedere a un cinquantenne di parlare della vecchiaia è un po’ crudele, perché non può esprimersi né da dentro né da fuori. Forse è ancora come sulla soglia, ma ogni giorno che passa si ritrova sempre più dentro. Si accorge con stupore, con terrore, con dolore, del proprio ingrigirsi. Ogni mattina scopre nuove inconfondibili tracce di vecchiaia sul suo volto, nel suo corpo, nel suo cuore, perfino nel suo spirito. E così tanta è la paura che spesso capisce che deve cominciare a correre per non farsi raggiungere dalla morte, e se uno va al Monte Stella di Milano o negli anelli del Central Park a New York vede questi uomini, soprattutto uomini (ma anche donne), correre correre correre con dei volti spesso tristi, spesso molto tesi, e si dicono: Ho fatto la maratona in meno di quattro ore! Verso dove corrono, o – meglio – da che cosa fuggono? I giovani – fatta eccezione degli atleti più o meno professionisti – non corrono. Non hanno bisogno di fuggire. Se ne stanno acciambellati sul divano, come se non avessero ossa, magari mangiando Nutella. La mia è l’età in cui in mezzo alla giornata si pensa: Ecco, oggi mi sento bene! magari senza accorgersi di come sia terribile.

Scrive Jean Amery, lo scrittore austriaco sopravvissuto ad Auschwitz e poi morto suicida come Primo Levi:



Chi dice “mi sento bene”, non è già più del tutto a suo agio, come chi afferma di sentirsi giovane, non può essere veramente giovane. Chi si “sente”, bene o male che sia, non sta in maniera ottimale, perché fin quando è veramente in pieno possesso delle sue forze e vive nella certezza di una corporeità sana, non si “sente”. Non è in se stesso, bensì (…) è “là”: presso le cose e gli avvenimenti del mondo. (1)



In questo senso perdonatemi se parlerò con emozione, con trepidazione, perché non mi sto occupando di un oggetto ma di un’esperienza – forse la più tragica che gli esseri umani possano sperimentare – che sto per incontrare, che sto incontrando, e che mi fa paura.

Vorrei iniziare con una domanda, anzi, con due. La prima è: a che età, secondo voi, comincia la vecchiaia? La seconda: quanti, qui tra noi, si ritengono ‘vecchi’? Se provate a rispondere in modo separato alle due domande, forse potrete notare come le due risposte possono risultare contraddittorie. Uno può dire: la vecchiaia inizia a 65 anni (per esempio) ed è una risposta astratta, generale, poi però incontra la seconda questione, si accorge di avere 66 anni e pensa: io vecchio? no di sicuro!. Ci sono le statistiche che – con la freddezza austera dei numeri – specificano l’aspettativa media della vita. In Italia per gli uomini è 79.4, per le donne 84,5. Però se capita sfortunatamente di partecipare al funerale di un settantacinquenne, non raramente si sentono commenti tipo: è morto giovane, era ancora giovane. D’accordo, è morto quattro anni sotto la media nazionale, ma si può dire di un settantacinquenne che è morto giovane? E’ interessante, poi, osservare che la risposta alla prima domanda (quando inizia la vecchiaia?) varia a seconda dell’età di colui al quale è posta. Una recente ricerca inglese riporta che le persone sotto i 30 anni pensano che la vecchiaia inizi prima di 60 anni, gli adulti tra 30 e 49 anni che essa inizi a 69, quelli tra 50 e 64 che inizi a 72, da 65 in poi che inizi a 74. Ma la stessa ricerca indica che – qualunque sia l’età in cui lo si chieda – pochissimi percepiscono se stessi come vecchi.

Per quanto mi riguarda, io mi sentirò vecchio il giorno in cui un gentilissimo sciagurato ragazzo (o, peggio, una educata sciaguratissima ragazza) si alzerà a cedermi il posto sulla metropolitana del mattino. Non è ancora mai accaduto, potrebbe accadere domani. Ma so che quella metropolitana sarà un oracolo, una macchina del tempo, un salto quantico, un passaggio fra due stati, fra due condizioni, fra due esistenze, non solo che tra due stazioni.

E’ evidente che la vecchiaia è una categoria dai contorni molto fluidi, indistinti. Essere vecchio, sentirsi vecchio: tutti sappiamo che non è la stessa cosa. Poi vi sono vecchiaie e giovinezze settoriali, c’è chi è fisicamente “giovane”, nel senso che magari partecipa alla Resegup e va in montagna salendo con la scioltezza e la velocità di un camoscio, ma mentalmente è “vecchio”, oppure il contrario. Esistono vecchiaie e giovinezze artistiche, intellettuali, relazionali, mediche, politiche. Pensiamo a quando l’attuale Presidente del Consiglio ha utilizzato – per la sua campagna elettorale all’interno del Partito Democratico – la violentissima espressione rottamare, che tanta presa ha fatto sugli elettori. E non soltanto su di loro, dal momento che D’Alema (geniale, grintoso e gelido politico. a capo dei Servizi Segreti, possibile candidato alla Presidenza della Repubblica) si è abbastanza velocemente trasformato in un signore canuto, col cappotto, che porta a spasso il cane. E pensate a Berlusconi, 78 anni, che sconta la sua pena assistendo gli anziani a Cesano Boscone, immaginate l’incontro tra queste diverse vecchiaie. Stiamo parlando di vecchiaie che nulla hanno a che vedere con (e certamente non corrispondono a) i dati brutalmente anagrafici. Segnalo l’emergere – abbastanza pauroso – della vecchiaia tecnologica, per cui si può diventare vecchi anche a trent’anni, e forse perfino prima. Il mondo dei dispositivi elettronici (da alcuni non a caso chiamate ormai protesi, in quanto effettivamente uno smartphone si inserisce a pieno titolo nello schema corporeo, come gli occhiali) genera nuovi modelli di vecchiaia. Sopravviverò al prossimo aggiornamento del sistema operativo, riuscirò a dominare la prossima applicazione? Oppure la versione più recente sarà pensata da nativi digitali solo per altri nativi digitali, che hanno davvero la mente diversa, e io dirò: no, questa cosa non la capisco, a me va bene l’email, va bene il messaggino, ho addirittura Facebook, ora basta, ed ecco: sono vecchio, si apre il baratro tra me e loro, si spalanca una voragine che si allargherà ogni giorno, e alla fine non li vedrò più, e tutto il mondo dove accade il loro scambio mi sarà precluso, proprio come un vecchietto sordo che siede nel salotto con i nipoti che parlano e – poiché non sente nulla – continua a dire: eeeeeh? cheeeeee?

La premessa quindi è che la vecchiaia non è un territorio omogeneo, ma una parola contenitore che racchiude significati e allude a comportamenti molto differenti. Non c’è una vecchiaia, ma ci sono molte vecchiaie, così come molte giovinezze. E non ha confini netti, è come una nuvola. Ci si ritrova dentro. Non conosco il giorno in cui prenderò quella metropolitana, non conosco ancora il volto di quel giovane (giovane!) che, inconsapevolmente, avrà lo sguardo e le parole del dio terribile che mi dirà quella verità che non voglio sentire: a un certo punto accadrà ed ecco, sarò dentro. Perché io non le vorrei le carte d’argento, non li vorrei gli sconti riservati agli anziani, pagherei tutto, pagherei il doppio – se volete – purché mi venisse lasciata la carta verde.

Ciò premesso vorrei adesso affrontare, o meglio: avvicinare, con voi alcune questioni riguardanti l’invecchiare. La differenza tra problema e questione (ben sviluppata in molti suoi lavori dal filosofo ed amico Silvano Petrosino) è che il problema lo si può in qualche modo risolvere, anche se difficile o difficilissimo: occorrerebbero più soldi, più competenze, più risorse, più buongoverno, ma lo si può risolvere. La questione no: è il luogo dell’interrogazione inesauribile, della domanda senza fine, è un luogo in cui ci si inoltra senza sapere la strada, un sentiero che si imbocca senza mappe e senza sapere dove ci porterà. Entrare nelle questioni genera inquietudine, si rimane inquieti e in un certo modo irrisolti: ma vi sono inquietudini che sono preferibili a false sicurezze



1.         Il mito di Aurora e Titone



Una prima questione che credo debba essere avvicinata riguarda la differenza tra vecchiaia e mortalità. La mitologia classica – che, come molte antiche narrazioni dell’umano e del divino, aveva compreso già tutto o quasi tutto – racconta di Eos, l’Aurora, la dèa meravigliosa dell’inizio rosato del giorno, si innamora, si infatua, si incapriccia di un mortale, Titone, fratello di Priamo e eroe troiano. Chiede al padre Zeus di concedere al suo amato l’immortalità, e Zeus la concede, avvertendola però che non le avrebbe concesso altro. Trascorrono anni d’amore, fino alla terribile scoperta: Titone invecchia. Eos ha chiesto e ottenuto da Zeus l’immortalità, ma ha dimenticato di chiedere per Titone l’eterna giovinezza. Così Titone diventa decrepito, e Eos non può più amarlo e non può più neppure vederlo: lo rinchiude in una grotta, dove lui grida e grida, invoca la morte, il dono che non potrà più avere. [Louis-Jean-François Lagrenée dit l’ainé]. Versioni più tarde e più miti narrano che Eos riesce a trasformarlo in cicala, proprio l’animale del canto effimero.

Nelle società tradizionali (non mi riferisco soltanto a quelle primitive, anche a quelle molto più prossime, fino a poche decine di anni fa), la vecchiaia era effettivamente il preludio alla morte, forse anche la sua preparazione. Sono recentemente tornato da un viaggio sul Monte Athos, uno dei luoghi statisticamente più longevi del pianeta. La vita è dura e scomoda, prevalentemente notturna e orante, non esiste neppure l’idea di barriera architettonica nei monasteri dalle mille ripide scale senza corrimano a precipizio sul mare. I monaci si lavano pochissimo, convinti come sono che chi conduca un’esistenza spirituale trasformi la sua materia in qualcosa già di semidivinizzato. Insomma, l’asceta, il santo, non puzza, essendo quasi soltanto anima. Sarà, ma l’igiene lascia a desiderare. Tuttavia vi sono vegliardi meravigliosi, alcuni circondati da una luce percepibile anche dai sensi. Quando si ammalano, normalmente non vanno in ospedale. A un certo punto non li vedono alle liturgie, si va a verificare nella loro cella nel bosco, e li si trova morti. Si avvolgono nell’abito monastico e li si seppellisce nella terra o in un sepolcreto. A volte ci si accorge di una morte dopo anni, trovando le ossa di un anacoreta già bianche e spolpate in una grotta. Nessun problema, si raccolgono e si dà loro sepoltura.

Nell’attuale occidente però le cose sono ben diverse, e tutti noi siamo destinati a diventare più o meno come Titone. La scienza ha già allargato incredibilmente la forchetta temporale che separa vecchiaia e morte. Potrebbe – in un tempo non lontano – separarle indefinitamente: anche senza arrivare alle nuove visioni di immortalità trans-umana (le ibernazioni, il riversamento della coscienza su supporto digitale, etc), si può pensare a una quasi-immortalità fatta di flebo, sondini naso gastrici e ventilatori respiratori. I reparti geriatrici diventerebbero delle immense grotte per altrettanti Titoni, proteggendo il resto dell’umanità dai loro gridi, anche muti. Forse saremo fra gli ultimi esseri umani a vedere ancora morti di vecchiaia (come si dice a Firenze). Sempre più le persone scivoleranno in una condizione di non-più-vita-non-ancora-morte e a decidere il momento dell’exitus saranno altri. Non l’angelo della morte, che viene come un ladro ad ora incerta, no: un decisore, una comunità di decisori, un comitato di esperti. Familiari, medici, giuristi, bioeticisti, trapiantologi, psicologi, assistenti sociali. Oppure un documento scritto da me, ma che comunque dovrà essere interpretato da altri. E’ quindi necessario – evidentemente – riflettere sui criteri che verranno considerati per decidere la mia morte, affrontando con coraggio e senza pregiudizi i problemi relativi alle dichiarazioni anticipate di trattamento, alla definizione di morte, etc. Chiedendosi cosa è bene tradurre in norma e cosa invece è meglio lasciare non regolato da leggi. Personalmente vorrei che i cosiddetti laici diventassero più materialisti, rendendosi conto del valore e dello splendore della materia anche quando è lesa, ferita, dolente; e che i cosiddetti cristiani diventassero più spirituali, difendendo la vita intera: non solo quindi la vita biologica, ma anche quella futura, quella eterna. Mi piacerebbe vedere i laici inchinarsi davanti all’essere, alla vita, e i cristiani predicare il paradiso, anziché vedere spesso i primi anelare al nulla e i secondi aggrapparsi alle increspature di strumenti che registrano la minima attività elettrica del cervello. Beninteso: so bene che si tratta di territori delicatissimi, minati, pericolosi. In gioco ci sono la vita e la morte.

2.         Il ritratto di Dorian Gray




Dorian Gray è l’opposto di Titone. Lui non invecchia, un altro, un’immagine, invecchia al posto suo. Ma muore.

Quanti anni hai? Mi chiede un’amica. Esito, poi dico: Quanti me ne dai? E lei: Non so: cinquanta, cinquantacinque. Io sbianco, mi sento svenire, la mia giornata è irrimediabilmente rovinata. E questo perché ho scoperto di dimostrare la mia età. La mia vera età. Quanti anni mi dai? è una domanda che si augura una risposta sbagliata (per difetto). Quaranta, quarantacinque avrebbe dovuto dire, ed ecco che sarei stato bene.

Ognuno di noi – chi più chi meno – combatte una battaglia contro il tempo, a colpi di yoga, corsa, palestra, pilates, botulino, zumba, tintura per capelli, diete macrobiotiche, ginseng, e chi più ne ha più ne metta. Dimostrare la propria età significa essere perduti. Così ci affanniamo, mentre il corpo, testardamente, testimonia contro di noi.

A questo proposito vorrei dire che le belle parole servono a poco. Ho fatto una ricerca di qualche titolo di libro di self help sull’invecchiamento:
- The Wonder of Aging: A New Approach to Embracing Life after Fifties
- Conscious Living, Conscious Aging: Embrace and Savor Your Next Chapter
- How to Survive Menopause: Everything You Need to Know to Embrace the Change of Life
- Still here: Embracing Aging, Changing and Dying
- Aging: Embrace it!
- Growing Old And Getting Older: How To Embrace The Troubles And Joys Of Your Senior Years

Certo, abbracciare l’invecchiamento, non opporre patetiche e inutili resistenze, accogliere con saggezza, stile, eleganza l’invecchiamento sarebbe fantastico. Il condannato a morte lo si vuole dignitoso e fiero mentre si avvicina al patibolo, ed è d’obbligo non accettare il cappuccio o la benda. Un momento, un solo altro momento, altrimenti mi difendo, mordo! grida il condannato di Victor Hugo: è così che vanno le cose per davvero. La debolezza, le malattie (dalle quali si guarisce, ma anche no, perché nella vecchiaia ogni malattia lascia un segno e segna un passo avanti irrevocabile, anche quando si guarisce), la mente che si sbanda, tutto questo lascia poco spazio alle parole auto consolatorie.



Del resto il poeta gallese Dylan Thomas lo cantava (e intendo questo in senso letterale, perché si tratta di una villanella ossia di un componimento che esige il canto):


Do not go gentle into that good night,
Old age should burn and rave at close of day;
Rage, rage against the dying of the light.

Non andare docile in quella notte benevola
La vecchiaia dovrebbe bruciare fervida al cadere del giorno
infuriati, infuriati contro il morire della luce

Non è possibile entrare nel nulla senza gridare contro la luce che si spegne. Sarebbe meglio incontrare la verità piuttosto che illudersi con vecchiaie sorridenti e a tinte pastello. Scrive ancora Amery, alla fine del suo denso e dolorosissimo libro sull’invecchiare:


A è riuscito a turbare l’equilibrio, a svelare il compromesso, a distruggere il quadro di genere, a scacciare la consolazione? Lo spera. I giorni si assottigliano e si prosciugano ed egli ha sentito il desiderio di dire la verità. (2)

 Nel video che vedrete durante questo Convegno vi è certamente tanta allegria, ma è l’allegria di un naufragio. I caregiver stanno attorno a vecchi re e regine che stanno andando in esilio dal mondo (come direbbe Arno Geiger ne Il vecchio re nel suo esilio, la narrazione del rapporto con il padre malato di Alzheimer), sono attorno a delle grandi, vecchie navi che si allontanano sempre più – e irreversibilmente – dalla costa, vecchie navi che naufragano, che vanno in pezzi: infatti il video è pieno di oggetti, di pezzi, di ingranaggi, oggetti struggenti, memorie materiali, ma tutto sfugge, e gli oggetti rimangono lì nel loro struggimento. Nella brochure cartacea la sedia è raffigurata vuota, pur con tutti gli oggetti intorno. Il naufragio è avvenuto, la nave è ormai così lontana da non lanciare più alcun messaggio, rimangono gli ostinati oggetti con il loro durare.


Però è vero: la vecchiaia deve bruciare fervida al cadere del giorno. E’ come se avessimo perso la sapienza del tramontare. Il punto è che non è possibile tramontare senza che qualcos’altro – qualcun altro – sorga. Nel Vangelo, il vecchio Simeone può congedarsi dalla vita, può tramontare, solo nel momento in cui vede lo spuntare di una nuova luce. Se la vita non è generativa (sul concetto di generatività rimando ai numerosi lavori di Mauro Magatti e soprattutto Chiara Giaccardi) non può neppure tramontare. Senza ‘figli’ (e dico ‘figli’ in ogni senso) si è condannati a far luce, non possiamo lasciarci bruciare fervidi al cadere del giorno

Non vanno scartate inoltre vecchiaie creative, vecchiaie alternative. La vecchiaia è caratterizzata dal restringersi delle possibilità. Ancora Amery (pp. 83-84). E’ inevitabile?



Scrive lo scrittore, anch’esso austriaco, Stefan Zweig:

Così gli anni scorrevano, lavorando e viaggiando, imparando, leggendo, collezionando e gustando. Una mattina del 1931 mi sono svegliato: avevo cinquant’anni (…). E’ così che nel giorno del mio cinquantesimo compleanno dal più profondo del cuore ho espresso un solo desiderio temerario: che succedesse qualcosa che mi strappasse a queste sicurezze e agli agi, che mi obbligasse non solamente a continuare bensì a ricominciare (…). Era solo un pensiero fuggevole che mi sfiorava come un soffio, forse non essendo affatto un pensiero davvero mio, ma di un altro, scaturito da profondità a me sconosciute (3)


Nell’India tradizionale vigeva la regola delle varie fasi (ashrama)  della vita. Fino a 24 anni vita casta, obbediente, disciplinata, ai piedi del proprio Maestro. Da 24 a 48 si mette su famiglia, si fanno figli, si partecipa alla vita del mondo, si educano i figli e li si sistemano, si restituisce alla società quel che ci ha dato. Da 48 a 72 ci si ritira gradualmente dal mondo, e dopo si lascia ogni cosa per diventare un asceta errante, senza casa né famiglia, alla sola ricerca dell’illuminazione. E’ chiaro che in alcun modo lo stile dell’India tradizionale è riproducibile nell’Italia di oggi: ma credo che potrebbero ugualmente essere immaginate esistenze che includono una vecchiaia creativa, generativa. Per utilizzare una metafora informatica, sovrascrivere l’hard disk della propria esistenza, ricominciare e non soltanto continuare, prigionieri di quella maschera sociale che ti sei costruito e adesso ti soffoca, può essere forse possibile: a condizione di saper morire e rinascere, perché ciascuno di questi passaggi non è meno di una morte.

3.         Proust e la madeleine

Conclusivamente, vorrei provare a spendere qualche parola sulla cosiddetta demenza, dal momento che il Progetto Anastasis è costruito per offrire cura a persone affette da questa malattia che – come ogni malattia, del resto – è in parte costruzione sociale e in parte un dato organico. D’altra parte io di Alzheimer non so niente, se non quello che tutti sanno, se non per aver letto qualche libro e ascoltato qualche testimonianza.

Come ho già detto, vedo queste persone come navi che sono così tanto al largo da non poter più comunicare se non qualche minimo messaggio che – chissà come – supera l’incolmabile distanza e ci rivela che in realtà quella che noi chiamiamo assenza è un tempo vissuto, ma di quel vissuto noi non abbiamo i codici, non sappiamo decifrarlo: per cui chiamarlo assenza è una semplificazione. Contemporaneamente essi sono simboli efficacissimi del mondo, precisamente del nostro mondo, che – come questi uomini e queste donne – nell’arco di poche decine di anni ha smarrito la memoria di ciò che ha costituito i suoi riferimenti, e ora è attonito e spaventato, non sentendosi più a casa neppure nel suo letto, e avvertendo qualunque cosa come potenzialmente minacciosa.

Naturalmente io non ho, non dico ricette, ma neppure delle vere e proprie opinioni. Visto però che abbiamo proceduto finora per riferimenti letterari, consentitemene brevemente ancora uno, molto famoso. Si tratta del momento in cui l’Io narrante della Recherche assaggia il dolce inzuppato nel tè.

Una sera d’inverno, appena rincasato, mia madre accorgendosi che avevo freddo, mi propose di prendere, contro la mia abitudine, un po’ di tè. Dapprima rifiutai, poi, non so perché, mutai parere. Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti, chiamati maddalene, che sembrano lo stampo della valva scanalata di una conchiglia di San Giacomo. E poco dopo, sentendomi triste per la giornata cupa e la prospettiva di un domani doloroso, portai macchinalmente alle labbra un cucchiaino del tè nel quale avevo lasciato inzuppare un pezzetto della maddalena. Ma appena la sorsata mescolata alle briciole del pasticcino toccò il mio palato, trasalii, attento al fenomeno straordinario che si svolgeva in me. Un delizioso piacere m’aveva invaso, isolato, senza nozione di causa. E subito, m’aveva reso indifferenti le vicessitudini, inoffensivi i rovesci, illusoria la brevità della vita…non mi sentivo più mediocre, contingente, mortale. Da dove m’era potuta venire quella gioia violenta ? Sentivo che era connessa col gusto del tè e della maddalena. Ma lo superava infinitamente, non doveva essere della stessa natura. Da dove veniva ? Che senso aveva ? Dove fermarla ? Bevo una seconda sorsata, non ci trovo più nulla della prima, una terza che mi porta ancor meno della seconda. E tempo di smettere, la virtù della bevanda sembra diminuire. E’ chiaro che la verità che cerco non è in essa, ma in me. E’ stata lei a risvegliarla, ma non la conosce, e non può far altro che ripetere indefinitivamente, con la forza sempre crescente, quella medesima testimonianza che non so interpretare e che vorrei almeno essere in grado di richiederle e ritrovare intatta, a mia disposizione ( e proprio ora ), per uno schiarimento decisivo. Depongo la tazza e mi volgo al mio spirito. Tocca a lui trovare la verità…retrocedo mentalmente all’istante in cui ho preso la prima cucchiaiata di tè. Ritrovo il medesimo stato, senza alcuna nuova chiarezza. Chiedo al mio spirito uno sforzo di più…ma mi accorgo della fatica del mio spirito che non riesce; allora lo obbligo a prendersi quella distrazione che gli rifiutavo, a pensare ad altro, a rimettersi in forze prima di un supremo tentativo. Poi, per la seconda volta, fatto il vuoto davanti a lui, gli rimetto innanzi il sapore ancora recente di quella prima sorsata e sento in me il trasalimento di qualcosa che si sposta, che vorrebbe salire, che si è disormeggiato da una grande profondità; non so cosa sia, ma sale, lentamente; avverto la resistenza e odo il rumore degli spazi percorsi…All’improvviso il ricordo è davanti a me. Il gusto era quello del pezzetto di maddalena che a Combray, la domenica mattina, quando andavo a darle il buongiorno in camera sua, zia Leonia mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di tiglio….


Io immagino – forse soltanto sogno – che alle persone con demenza possano essere offerti momenti proustiani. Essi in primo luogo passano dai sensi puri, dal gusto, dal sapore di un biscotto inzuppato nel tè. Ma la sensazione innesca un percorso di liberazione del ricordo dalla prigionia del tempo, un percorso difficile, non immediato, ma possibile. Non so – e lo chiedo a chi parlerà da adesso in poi – se è realistico per un prestatore di cura, un familiare, un operatore o un’operatrice, propiziare al malato di Alzheimer esperienze proustiane e ritrovarsi con lui in una misteriosa Combray, in parte ricordata, in parte trasognata.

Grazie.


(1) Amery J (1998), Rivolta e rassegnazione. Sull’invecchiare, Torino: Bollati Boringhieri, p. 56.
(2) Amery J (1988) p. 149
(3) Zweig S (2000), Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo, Milano: Mondadori

Sfondo Bibliografico

Amery J (1998), Rivolta e rassegnazione. Sull’invecchiare, Torino: Bollati Boringhieri
Augè M (2014), Il tempo è senza età. La vecchiaia non esiste, Milano: Cortina
Geiger A (2012), Il vecchio re nel suo esilio, Milano: Bompiani
Zweig S (2000), Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo, Milano: Mondadori


martedì 21 ottobre 2014

La parola prende il mio Maestro. Omaggio a LLV

Mi fa sempre paura quando qualcuno dice :passo la parola, cioè passo quella cosa intermedia fra terra e cielo, cioè tra il mondo degli oggetti sensibili e il mondo degli oggetti intelligibili, che ha prodotto l’umanità dell’uomo sulla terra. L’uomo è uomo perché ha l’uso della parola, o di questo tipo di parola, la parola che si manifesta in logos, l’intelligibile. E’ con la parola che si edifica il bene e si costruisce il male. Io adesso dovrei prendere la parola, ma è molto più come se la parola prendesse me e si servisse di me, è come se io fossi la parola della parola, è come se il mio corpo, il corpo di Luigi Lombardi ex bambino, fosse parola della parola. Sono molto impressionato e devo dire che sempre più spesso, quando comincio a parlare, io non riesco a parlare dell’argomento di cui dovrei parlare, e parlo del fatto che tra esseri viventi accade la parola. Non riesco a non inciampare sulla soglia, nella meraviglia per questo accadimento. Vedo che in me (ma questo in è assolutamente non spaziale) c’è una scaturigine di pensiero del tutto irrappresentabile. Questa scaturigine di pensiero si serve di una macchina infinitamente sofisticata che è il cervello, quel piccolo cavolfiore di carne speciale che sta in cima al mio cranio, al vertice di una specie di manico di ombrello molto articolato che è la colonna vertebrale, e io vedo in questo momento tutti voi ai raggi X, come colonne vertebrali che sorreggono queste custodie di cervelli, e vedo quindi i concetti che si formano nella scaturigine irrappresentabile, dove sono coscienti. La scaturigine dice al cervello quello che ha da dire, il cervello traduce l’intelligibile in cervellese, cioè in algoritmi altamente sofisticati che, attraverso nervi, raggiungono l’apparato della fonazione, in particolare la mia lingua e le mie corde vocali; e il pensiero, attraverso messaggi che nulla hanno a che fare col pensiero (perché sono bioelettrici), mette in moto muscoli, che nulla hanno a che fare col pensiero, e questi muscoli muovono la lingua a far muovere l’aria in un modo sofisticatissimo, e questo linguaggio articolato, fatto di suoni fisici registrabili e registrati, impinge su dei timpani, cioè su delle cose che vibrano meccanicamente nella vostra cellula (frutto della evoluzione della specie e dell’evoluzione dalla cellula all’uomo: ciascuno di voi è la storia di una cellula), essi sono incredibilmente sensibili, e i fenomeni meccanici di questo timpano vengono decodificati da apparecchi sensibilissimi che li trasformano da meccanici in biochimici e bioelettrici, percorrono nervi ottici ai quali quella cellula che ha prodotto il corpo umano ha riservato canali nell’osso, raggiungono zone dei vostri cervelli dove  avvengono fenomeni puramente fisici (cioè arrivano messaggi bioelettrici che nulla hanno a che vedere con i concetti coscienti), e voi capite la parola. Ecco, io non riesco a non inciampare su questo. Se questo avviene, e se lo capiamo fino in fondo, dobbiamo ripercorrere tutta la strada dell’evoluzione, dai nostri antenati del Lago Turkana, del Sud Africa, della Rift Valley, questi babbuini che camminavano su due zampe, e dobbiamo renderci conto che sta succedendo qualcosa di inaudito, forse riservato al nostro pianeta, forse riservato proprio a questa Terra. Noi stiamo mettendo in contatto la materia, antica centinaia di milioni di anni (cioè centinaia di migliaia di millenni: l’uomo ha centinaia di migliaia di millenni di età: quindi, se voi togliete l’era cristiana a centomila millenni, ve ne rimangono 999.998, di millenni; e l’uomo è più antico di così, è antico due o tre volte questo)…siamo immersi nell’inesplicabile presente, nel mistero indubitabile, e ciechi al mistero indubitabile, e io con la mia mente, con la mia scaturigine invisibile, con il mio cervello, con il mio apparato della fonazione (e un pochino anche con il mio “coraggio”, perché dire queste cose in pubblico richiede un minimo di spudoratezza), io suscito in voi degli intelligibili, che sono fisicamente equivalenti ai fenomeni bioelettrici dei vostri neuroni. Questo sta succedendo su questo pianeta. Allora, è talmente più stupefacente l’evento rispetto ai contenuti, che per me passare ai contenuti è sempre una violenza. Io vorrei rimanere sempre assorbito sulla soglia, nella contemplazione dell’evento. Questo evento che non sarebbe possibile se non fossimo nelle vicinanze della stella Sole, se la Terra  non fosse opportunamente riscaldata, se l’acqua non fosse prevalentemente liquida; perché il primordiale è infinitamente gelido, è vicino allo zero assoluto. E se, dopo il medioevo cosmico (cioè dopo il periodo di sole polveri) non ci fossero stati quegli agglutinamenti, simili a quando si formano i grumi di polvere in casa (se volete assistere alla cosmogenesi dovete osservare cosa succede alla polvere sotto i letti quando non si passa la scopa: la polvere diventa un addensato che è esattamente uguale a quello che ci mostrano le fotografie astronomiche delle nebulose dove si formano le stelle. C’è stato tutto in periodo in cui tutto l’Universo era buio è fatto tutto di polveri, e se le polveri non si fossero condensate fino a pressioni che hanno acceso le stelle la luce non sarebbe stata, e senza la luce e il calore il mondo sarebbe un’estensione di ghiaccio infinita, dove i corpi diventerebbero vitrei e fragili. Noi possiamo parlare perché c’è il sole, perché siamo in zone riscaldate opportunamente (non fino a bruciare) dal sole.