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venerdì 24 ottobre 2014

Sull'invecchiare. A Lecco, il 24 ottobre 2014

Convegno
Progetto ANASTASIS. Prospettive di integrazione tra servizi e comunità
a sostegno della famiglia in un territorio che invecchia
Venerdì 24 ottobre 2014 – Lecco
Vivere in una comunità che invecchia: vissuti, bisogni, desideri
(Leonardo Lenzi)




Chiedere a un cinquantenne di parlare della vecchiaia è un po’ crudele, perché non può esprimersi né da dentro né da fuori. Forse è ancora come sulla soglia, ma ogni giorno che passa si ritrova sempre più dentro. Si accorge con stupore, con terrore, con dolore, del proprio ingrigirsi. Ogni mattina scopre nuove inconfondibili tracce di vecchiaia sul suo volto, nel suo corpo, nel suo cuore, perfino nel suo spirito. E così tanta è la paura che spesso capisce che deve cominciare a correre per non farsi raggiungere dalla morte, e se uno va al Monte Stella di Milano o negli anelli del Central Park a New York vede questi uomini, soprattutto uomini (ma anche donne), correre correre correre con dei volti spesso tristi, spesso molto tesi, e si dicono: Ho fatto la maratona in meno di quattro ore! Verso dove corrono, o – meglio – da che cosa fuggono? I giovani – fatta eccezione degli atleti più o meno professionisti – non corrono. Non hanno bisogno di fuggire. Se ne stanno acciambellati sul divano, come se non avessero ossa, magari mangiando Nutella. La mia è l’età in cui in mezzo alla giornata si pensa: Ecco, oggi mi sento bene! magari senza accorgersi di come sia terribile.

Scrive Jean Amery, lo scrittore austriaco sopravvissuto ad Auschwitz e poi morto suicida come Primo Levi:



Chi dice “mi sento bene”, non è già più del tutto a suo agio, come chi afferma di sentirsi giovane, non può essere veramente giovane. Chi si “sente”, bene o male che sia, non sta in maniera ottimale, perché fin quando è veramente in pieno possesso delle sue forze e vive nella certezza di una corporeità sana, non si “sente”. Non è in se stesso, bensì (…) è “là”: presso le cose e gli avvenimenti del mondo. (1)



In questo senso perdonatemi se parlerò con emozione, con trepidazione, perché non mi sto occupando di un oggetto ma di un’esperienza – forse la più tragica che gli esseri umani possano sperimentare – che sto per incontrare, che sto incontrando, e che mi fa paura.

Vorrei iniziare con una domanda, anzi, con due. La prima è: a che età, secondo voi, comincia la vecchiaia? La seconda: quanti, qui tra noi, si ritengono ‘vecchi’? Se provate a rispondere in modo separato alle due domande, forse potrete notare come le due risposte possono risultare contraddittorie. Uno può dire: la vecchiaia inizia a 65 anni (per esempio) ed è una risposta astratta, generale, poi però incontra la seconda questione, si accorge di avere 66 anni e pensa: io vecchio? no di sicuro!. Ci sono le statistiche che – con la freddezza austera dei numeri – specificano l’aspettativa media della vita. In Italia per gli uomini è 79.4, per le donne 84,5. Però se capita sfortunatamente di partecipare al funerale di un settantacinquenne, non raramente si sentono commenti tipo: è morto giovane, era ancora giovane. D’accordo, è morto quattro anni sotto la media nazionale, ma si può dire di un settantacinquenne che è morto giovane? E’ interessante, poi, osservare che la risposta alla prima domanda (quando inizia la vecchiaia?) varia a seconda dell’età di colui al quale è posta. Una recente ricerca inglese riporta che le persone sotto i 30 anni pensano che la vecchiaia inizi prima di 60 anni, gli adulti tra 30 e 49 anni che essa inizi a 69, quelli tra 50 e 64 che inizi a 72, da 65 in poi che inizi a 74. Ma la stessa ricerca indica che – qualunque sia l’età in cui lo si chieda – pochissimi percepiscono se stessi come vecchi.

Per quanto mi riguarda, io mi sentirò vecchio il giorno in cui un gentilissimo sciagurato ragazzo (o, peggio, una educata sciaguratissima ragazza) si alzerà a cedermi il posto sulla metropolitana del mattino. Non è ancora mai accaduto, potrebbe accadere domani. Ma so che quella metropolitana sarà un oracolo, una macchina del tempo, un salto quantico, un passaggio fra due stati, fra due condizioni, fra due esistenze, non solo che tra due stazioni.

E’ evidente che la vecchiaia è una categoria dai contorni molto fluidi, indistinti. Essere vecchio, sentirsi vecchio: tutti sappiamo che non è la stessa cosa. Poi vi sono vecchiaie e giovinezze settoriali, c’è chi è fisicamente “giovane”, nel senso che magari partecipa alla Resegup e va in montagna salendo con la scioltezza e la velocità di un camoscio, ma mentalmente è “vecchio”, oppure il contrario. Esistono vecchiaie e giovinezze artistiche, intellettuali, relazionali, mediche, politiche. Pensiamo a quando l’attuale Presidente del Consiglio ha utilizzato – per la sua campagna elettorale all’interno del Partito Democratico – la violentissima espressione rottamare, che tanta presa ha fatto sugli elettori. E non soltanto su di loro, dal momento che D’Alema (geniale, grintoso e gelido politico. a capo dei Servizi Segreti, possibile candidato alla Presidenza della Repubblica) si è abbastanza velocemente trasformato in un signore canuto, col cappotto, che porta a spasso il cane. E pensate a Berlusconi, 78 anni, che sconta la sua pena assistendo gli anziani a Cesano Boscone, immaginate l’incontro tra queste diverse vecchiaie. Stiamo parlando di vecchiaie che nulla hanno a che vedere con (e certamente non corrispondono a) i dati brutalmente anagrafici. Segnalo l’emergere – abbastanza pauroso – della vecchiaia tecnologica, per cui si può diventare vecchi anche a trent’anni, e forse perfino prima. Il mondo dei dispositivi elettronici (da alcuni non a caso chiamate ormai protesi, in quanto effettivamente uno smartphone si inserisce a pieno titolo nello schema corporeo, come gli occhiali) genera nuovi modelli di vecchiaia. Sopravviverò al prossimo aggiornamento del sistema operativo, riuscirò a dominare la prossima applicazione? Oppure la versione più recente sarà pensata da nativi digitali solo per altri nativi digitali, che hanno davvero la mente diversa, e io dirò: no, questa cosa non la capisco, a me va bene l’email, va bene il messaggino, ho addirittura Facebook, ora basta, ed ecco: sono vecchio, si apre il baratro tra me e loro, si spalanca una voragine che si allargherà ogni giorno, e alla fine non li vedrò più, e tutto il mondo dove accade il loro scambio mi sarà precluso, proprio come un vecchietto sordo che siede nel salotto con i nipoti che parlano e – poiché non sente nulla – continua a dire: eeeeeh? cheeeeee?

La premessa quindi è che la vecchiaia non è un territorio omogeneo, ma una parola contenitore che racchiude significati e allude a comportamenti molto differenti. Non c’è una vecchiaia, ma ci sono molte vecchiaie, così come molte giovinezze. E non ha confini netti, è come una nuvola. Ci si ritrova dentro. Non conosco il giorno in cui prenderò quella metropolitana, non conosco ancora il volto di quel giovane (giovane!) che, inconsapevolmente, avrà lo sguardo e le parole del dio terribile che mi dirà quella verità che non voglio sentire: a un certo punto accadrà ed ecco, sarò dentro. Perché io non le vorrei le carte d’argento, non li vorrei gli sconti riservati agli anziani, pagherei tutto, pagherei il doppio – se volete – purché mi venisse lasciata la carta verde.

Ciò premesso vorrei adesso affrontare, o meglio: avvicinare, con voi alcune questioni riguardanti l’invecchiare. La differenza tra problema e questione (ben sviluppata in molti suoi lavori dal filosofo ed amico Silvano Petrosino) è che il problema lo si può in qualche modo risolvere, anche se difficile o difficilissimo: occorrerebbero più soldi, più competenze, più risorse, più buongoverno, ma lo si può risolvere. La questione no: è il luogo dell’interrogazione inesauribile, della domanda senza fine, è un luogo in cui ci si inoltra senza sapere la strada, un sentiero che si imbocca senza mappe e senza sapere dove ci porterà. Entrare nelle questioni genera inquietudine, si rimane inquieti e in un certo modo irrisolti: ma vi sono inquietudini che sono preferibili a false sicurezze



1.         Il mito di Aurora e Titone



Una prima questione che credo debba essere avvicinata riguarda la differenza tra vecchiaia e mortalità. La mitologia classica – che, come molte antiche narrazioni dell’umano e del divino, aveva compreso già tutto o quasi tutto – racconta di Eos, l’Aurora, la dèa meravigliosa dell’inizio rosato del giorno, si innamora, si infatua, si incapriccia di un mortale, Titone, fratello di Priamo e eroe troiano. Chiede al padre Zeus di concedere al suo amato l’immortalità, e Zeus la concede, avvertendola però che non le avrebbe concesso altro. Trascorrono anni d’amore, fino alla terribile scoperta: Titone invecchia. Eos ha chiesto e ottenuto da Zeus l’immortalità, ma ha dimenticato di chiedere per Titone l’eterna giovinezza. Così Titone diventa decrepito, e Eos non può più amarlo e non può più neppure vederlo: lo rinchiude in una grotta, dove lui grida e grida, invoca la morte, il dono che non potrà più avere. [Louis-Jean-François Lagrenée dit l’ainé]. Versioni più tarde e più miti narrano che Eos riesce a trasformarlo in cicala, proprio l’animale del canto effimero.

Nelle società tradizionali (non mi riferisco soltanto a quelle primitive, anche a quelle molto più prossime, fino a poche decine di anni fa), la vecchiaia era effettivamente il preludio alla morte, forse anche la sua preparazione. Sono recentemente tornato da un viaggio sul Monte Athos, uno dei luoghi statisticamente più longevi del pianeta. La vita è dura e scomoda, prevalentemente notturna e orante, non esiste neppure l’idea di barriera architettonica nei monasteri dalle mille ripide scale senza corrimano a precipizio sul mare. I monaci si lavano pochissimo, convinti come sono che chi conduca un’esistenza spirituale trasformi la sua materia in qualcosa già di semidivinizzato. Insomma, l’asceta, il santo, non puzza, essendo quasi soltanto anima. Sarà, ma l’igiene lascia a desiderare. Tuttavia vi sono vegliardi meravigliosi, alcuni circondati da una luce percepibile anche dai sensi. Quando si ammalano, normalmente non vanno in ospedale. A un certo punto non li vedono alle liturgie, si va a verificare nella loro cella nel bosco, e li si trova morti. Si avvolgono nell’abito monastico e li si seppellisce nella terra o in un sepolcreto. A volte ci si accorge di una morte dopo anni, trovando le ossa di un anacoreta già bianche e spolpate in una grotta. Nessun problema, si raccolgono e si dà loro sepoltura.

Nell’attuale occidente però le cose sono ben diverse, e tutti noi siamo destinati a diventare più o meno come Titone. La scienza ha già allargato incredibilmente la forchetta temporale che separa vecchiaia e morte. Potrebbe – in un tempo non lontano – separarle indefinitamente: anche senza arrivare alle nuove visioni di immortalità trans-umana (le ibernazioni, il riversamento della coscienza su supporto digitale, etc), si può pensare a una quasi-immortalità fatta di flebo, sondini naso gastrici e ventilatori respiratori. I reparti geriatrici diventerebbero delle immense grotte per altrettanti Titoni, proteggendo il resto dell’umanità dai loro gridi, anche muti. Forse saremo fra gli ultimi esseri umani a vedere ancora morti di vecchiaia (come si dice a Firenze). Sempre più le persone scivoleranno in una condizione di non-più-vita-non-ancora-morte e a decidere il momento dell’exitus saranno altri. Non l’angelo della morte, che viene come un ladro ad ora incerta, no: un decisore, una comunità di decisori, un comitato di esperti. Familiari, medici, giuristi, bioeticisti, trapiantologi, psicologi, assistenti sociali. Oppure un documento scritto da me, ma che comunque dovrà essere interpretato da altri. E’ quindi necessario – evidentemente – riflettere sui criteri che verranno considerati per decidere la mia morte, affrontando con coraggio e senza pregiudizi i problemi relativi alle dichiarazioni anticipate di trattamento, alla definizione di morte, etc. Chiedendosi cosa è bene tradurre in norma e cosa invece è meglio lasciare non regolato da leggi. Personalmente vorrei che i cosiddetti laici diventassero più materialisti, rendendosi conto del valore e dello splendore della materia anche quando è lesa, ferita, dolente; e che i cosiddetti cristiani diventassero più spirituali, difendendo la vita intera: non solo quindi la vita biologica, ma anche quella futura, quella eterna. Mi piacerebbe vedere i laici inchinarsi davanti all’essere, alla vita, e i cristiani predicare il paradiso, anziché vedere spesso i primi anelare al nulla e i secondi aggrapparsi alle increspature di strumenti che registrano la minima attività elettrica del cervello. Beninteso: so bene che si tratta di territori delicatissimi, minati, pericolosi. In gioco ci sono la vita e la morte.

2.         Il ritratto di Dorian Gray




Dorian Gray è l’opposto di Titone. Lui non invecchia, un altro, un’immagine, invecchia al posto suo. Ma muore.

Quanti anni hai? Mi chiede un’amica. Esito, poi dico: Quanti me ne dai? E lei: Non so: cinquanta, cinquantacinque. Io sbianco, mi sento svenire, la mia giornata è irrimediabilmente rovinata. E questo perché ho scoperto di dimostrare la mia età. La mia vera età. Quanti anni mi dai? è una domanda che si augura una risposta sbagliata (per difetto). Quaranta, quarantacinque avrebbe dovuto dire, ed ecco che sarei stato bene.

Ognuno di noi – chi più chi meno – combatte una battaglia contro il tempo, a colpi di yoga, corsa, palestra, pilates, botulino, zumba, tintura per capelli, diete macrobiotiche, ginseng, e chi più ne ha più ne metta. Dimostrare la propria età significa essere perduti. Così ci affanniamo, mentre il corpo, testardamente, testimonia contro di noi.

A questo proposito vorrei dire che le belle parole servono a poco. Ho fatto una ricerca di qualche titolo di libro di self help sull’invecchiamento:
- The Wonder of Aging: A New Approach to Embracing Life after Fifties
- Conscious Living, Conscious Aging: Embrace and Savor Your Next Chapter
- How to Survive Menopause: Everything You Need to Know to Embrace the Change of Life
- Still here: Embracing Aging, Changing and Dying
- Aging: Embrace it!
- Growing Old And Getting Older: How To Embrace The Troubles And Joys Of Your Senior Years

Certo, abbracciare l’invecchiamento, non opporre patetiche e inutili resistenze, accogliere con saggezza, stile, eleganza l’invecchiamento sarebbe fantastico. Il condannato a morte lo si vuole dignitoso e fiero mentre si avvicina al patibolo, ed è d’obbligo non accettare il cappuccio o la benda. Un momento, un solo altro momento, altrimenti mi difendo, mordo! grida il condannato di Victor Hugo: è così che vanno le cose per davvero. La debolezza, le malattie (dalle quali si guarisce, ma anche no, perché nella vecchiaia ogni malattia lascia un segno e segna un passo avanti irrevocabile, anche quando si guarisce), la mente che si sbanda, tutto questo lascia poco spazio alle parole auto consolatorie.



Del resto il poeta gallese Dylan Thomas lo cantava (e intendo questo in senso letterale, perché si tratta di una villanella ossia di un componimento che esige il canto):


Do not go gentle into that good night,
Old age should burn and rave at close of day;
Rage, rage against the dying of the light.

Non andare docile in quella notte benevola
La vecchiaia dovrebbe bruciare fervida al cadere del giorno
infuriati, infuriati contro il morire della luce

Non è possibile entrare nel nulla senza gridare contro la luce che si spegne. Sarebbe meglio incontrare la verità piuttosto che illudersi con vecchiaie sorridenti e a tinte pastello. Scrive ancora Amery, alla fine del suo denso e dolorosissimo libro sull’invecchiare:


A è riuscito a turbare l’equilibrio, a svelare il compromesso, a distruggere il quadro di genere, a scacciare la consolazione? Lo spera. I giorni si assottigliano e si prosciugano ed egli ha sentito il desiderio di dire la verità. (2)

 Nel video che vedrete durante questo Convegno vi è certamente tanta allegria, ma è l’allegria di un naufragio. I caregiver stanno attorno a vecchi re e regine che stanno andando in esilio dal mondo (come direbbe Arno Geiger ne Il vecchio re nel suo esilio, la narrazione del rapporto con il padre malato di Alzheimer), sono attorno a delle grandi, vecchie navi che si allontanano sempre più – e irreversibilmente – dalla costa, vecchie navi che naufragano, che vanno in pezzi: infatti il video è pieno di oggetti, di pezzi, di ingranaggi, oggetti struggenti, memorie materiali, ma tutto sfugge, e gli oggetti rimangono lì nel loro struggimento. Nella brochure cartacea la sedia è raffigurata vuota, pur con tutti gli oggetti intorno. Il naufragio è avvenuto, la nave è ormai così lontana da non lanciare più alcun messaggio, rimangono gli ostinati oggetti con il loro durare.


Però è vero: la vecchiaia deve bruciare fervida al cadere del giorno. E’ come se avessimo perso la sapienza del tramontare. Il punto è che non è possibile tramontare senza che qualcos’altro – qualcun altro – sorga. Nel Vangelo, il vecchio Simeone può congedarsi dalla vita, può tramontare, solo nel momento in cui vede lo spuntare di una nuova luce. Se la vita non è generativa (sul concetto di generatività rimando ai numerosi lavori di Mauro Magatti e soprattutto Chiara Giaccardi) non può neppure tramontare. Senza ‘figli’ (e dico ‘figli’ in ogni senso) si è condannati a far luce, non possiamo lasciarci bruciare fervidi al cadere del giorno

Non vanno scartate inoltre vecchiaie creative, vecchiaie alternative. La vecchiaia è caratterizzata dal restringersi delle possibilità. Ancora Amery (pp. 83-84). E’ inevitabile?



Scrive lo scrittore, anch’esso austriaco, Stefan Zweig:

Così gli anni scorrevano, lavorando e viaggiando, imparando, leggendo, collezionando e gustando. Una mattina del 1931 mi sono svegliato: avevo cinquant’anni (…). E’ così che nel giorno del mio cinquantesimo compleanno dal più profondo del cuore ho espresso un solo desiderio temerario: che succedesse qualcosa che mi strappasse a queste sicurezze e agli agi, che mi obbligasse non solamente a continuare bensì a ricominciare (…). Era solo un pensiero fuggevole che mi sfiorava come un soffio, forse non essendo affatto un pensiero davvero mio, ma di un altro, scaturito da profondità a me sconosciute (3)


Nell’India tradizionale vigeva la regola delle varie fasi (ashrama)  della vita. Fino a 24 anni vita casta, obbediente, disciplinata, ai piedi del proprio Maestro. Da 24 a 48 si mette su famiglia, si fanno figli, si partecipa alla vita del mondo, si educano i figli e li si sistemano, si restituisce alla società quel che ci ha dato. Da 48 a 72 ci si ritira gradualmente dal mondo, e dopo si lascia ogni cosa per diventare un asceta errante, senza casa né famiglia, alla sola ricerca dell’illuminazione. E’ chiaro che in alcun modo lo stile dell’India tradizionale è riproducibile nell’Italia di oggi: ma credo che potrebbero ugualmente essere immaginate esistenze che includono una vecchiaia creativa, generativa. Per utilizzare una metafora informatica, sovrascrivere l’hard disk della propria esistenza, ricominciare e non soltanto continuare, prigionieri di quella maschera sociale che ti sei costruito e adesso ti soffoca, può essere forse possibile: a condizione di saper morire e rinascere, perché ciascuno di questi passaggi non è meno di una morte.

3.         Proust e la madeleine

Conclusivamente, vorrei provare a spendere qualche parola sulla cosiddetta demenza, dal momento che il Progetto Anastasis è costruito per offrire cura a persone affette da questa malattia che – come ogni malattia, del resto – è in parte costruzione sociale e in parte un dato organico. D’altra parte io di Alzheimer non so niente, se non quello che tutti sanno, se non per aver letto qualche libro e ascoltato qualche testimonianza.

Come ho già detto, vedo queste persone come navi che sono così tanto al largo da non poter più comunicare se non qualche minimo messaggio che – chissà come – supera l’incolmabile distanza e ci rivela che in realtà quella che noi chiamiamo assenza è un tempo vissuto, ma di quel vissuto noi non abbiamo i codici, non sappiamo decifrarlo: per cui chiamarlo assenza è una semplificazione. Contemporaneamente essi sono simboli efficacissimi del mondo, precisamente del nostro mondo, che – come questi uomini e queste donne – nell’arco di poche decine di anni ha smarrito la memoria di ciò che ha costituito i suoi riferimenti, e ora è attonito e spaventato, non sentendosi più a casa neppure nel suo letto, e avvertendo qualunque cosa come potenzialmente minacciosa.

Naturalmente io non ho, non dico ricette, ma neppure delle vere e proprie opinioni. Visto però che abbiamo proceduto finora per riferimenti letterari, consentitemene brevemente ancora uno, molto famoso. Si tratta del momento in cui l’Io narrante della Recherche assaggia il dolce inzuppato nel tè.

Una sera d’inverno, appena rincasato, mia madre accorgendosi che avevo freddo, mi propose di prendere, contro la mia abitudine, un po’ di tè. Dapprima rifiutai, poi, non so perché, mutai parere. Mandò a prendere uno di quei dolci corti e paffuti, chiamati maddalene, che sembrano lo stampo della valva scanalata di una conchiglia di San Giacomo. E poco dopo, sentendomi triste per la giornata cupa e la prospettiva di un domani doloroso, portai macchinalmente alle labbra un cucchiaino del tè nel quale avevo lasciato inzuppare un pezzetto della maddalena. Ma appena la sorsata mescolata alle briciole del pasticcino toccò il mio palato, trasalii, attento al fenomeno straordinario che si svolgeva in me. Un delizioso piacere m’aveva invaso, isolato, senza nozione di causa. E subito, m’aveva reso indifferenti le vicessitudini, inoffensivi i rovesci, illusoria la brevità della vita…non mi sentivo più mediocre, contingente, mortale. Da dove m’era potuta venire quella gioia violenta ? Sentivo che era connessa col gusto del tè e della maddalena. Ma lo superava infinitamente, non doveva essere della stessa natura. Da dove veniva ? Che senso aveva ? Dove fermarla ? Bevo una seconda sorsata, non ci trovo più nulla della prima, una terza che mi porta ancor meno della seconda. E tempo di smettere, la virtù della bevanda sembra diminuire. E’ chiaro che la verità che cerco non è in essa, ma in me. E’ stata lei a risvegliarla, ma non la conosce, e non può far altro che ripetere indefinitivamente, con la forza sempre crescente, quella medesima testimonianza che non so interpretare e che vorrei almeno essere in grado di richiederle e ritrovare intatta, a mia disposizione ( e proprio ora ), per uno schiarimento decisivo. Depongo la tazza e mi volgo al mio spirito. Tocca a lui trovare la verità…retrocedo mentalmente all’istante in cui ho preso la prima cucchiaiata di tè. Ritrovo il medesimo stato, senza alcuna nuova chiarezza. Chiedo al mio spirito uno sforzo di più…ma mi accorgo della fatica del mio spirito che non riesce; allora lo obbligo a prendersi quella distrazione che gli rifiutavo, a pensare ad altro, a rimettersi in forze prima di un supremo tentativo. Poi, per la seconda volta, fatto il vuoto davanti a lui, gli rimetto innanzi il sapore ancora recente di quella prima sorsata e sento in me il trasalimento di qualcosa che si sposta, che vorrebbe salire, che si è disormeggiato da una grande profondità; non so cosa sia, ma sale, lentamente; avverto la resistenza e odo il rumore degli spazi percorsi…All’improvviso il ricordo è davanti a me. Il gusto era quello del pezzetto di maddalena che a Combray, la domenica mattina, quando andavo a darle il buongiorno in camera sua, zia Leonia mi offriva dopo averlo inzuppato nel suo infuso di tè o di tiglio….


Io immagino – forse soltanto sogno – che alle persone con demenza possano essere offerti momenti proustiani. Essi in primo luogo passano dai sensi puri, dal gusto, dal sapore di un biscotto inzuppato nel tè. Ma la sensazione innesca un percorso di liberazione del ricordo dalla prigionia del tempo, un percorso difficile, non immediato, ma possibile. Non so – e lo chiedo a chi parlerà da adesso in poi – se è realistico per un prestatore di cura, un familiare, un operatore o un’operatrice, propiziare al malato di Alzheimer esperienze proustiane e ritrovarsi con lui in una misteriosa Combray, in parte ricordata, in parte trasognata.

Grazie.


(1) Amery J (1998), Rivolta e rassegnazione. Sull’invecchiare, Torino: Bollati Boringhieri, p. 56.
(2) Amery J (1988) p. 149
(3) Zweig S (2000), Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo, Milano: Mondadori

Sfondo Bibliografico

Amery J (1998), Rivolta e rassegnazione. Sull’invecchiare, Torino: Bollati Boringhieri
Augè M (2014), Il tempo è senza età. La vecchiaia non esiste, Milano: Cortina
Geiger A (2012), Il vecchio re nel suo esilio, Milano: Bompiani
Zweig S (2000), Il mondo di ieri. Ricordi di un europeo, Milano: Mondadori


martedì 21 ottobre 2014

La parola prende il mio Maestro. Omaggio a LLV

Mi fa sempre paura quando qualcuno dice :passo la parola, cioè passo quella cosa intermedia fra terra e cielo, cioè tra il mondo degli oggetti sensibili e il mondo degli oggetti intelligibili, che ha prodotto l’umanità dell’uomo sulla terra. L’uomo è uomo perché ha l’uso della parola, o di questo tipo di parola, la parola che si manifesta in logos, l’intelligibile. E’ con la parola che si edifica il bene e si costruisce il male. Io adesso dovrei prendere la parola, ma è molto più come se la parola prendesse me e si servisse di me, è come se io fossi la parola della parola, è come se il mio corpo, il corpo di Luigi Lombardi ex bambino, fosse parola della parola. Sono molto impressionato e devo dire che sempre più spesso, quando comincio a parlare, io non riesco a parlare dell’argomento di cui dovrei parlare, e parlo del fatto che tra esseri viventi accade la parola. Non riesco a non inciampare sulla soglia, nella meraviglia per questo accadimento. Vedo che in me (ma questo in è assolutamente non spaziale) c’è una scaturigine di pensiero del tutto irrappresentabile. Questa scaturigine di pensiero si serve di una macchina infinitamente sofisticata che è il cervello, quel piccolo cavolfiore di carne speciale che sta in cima al mio cranio, al vertice di una specie di manico di ombrello molto articolato che è la colonna vertebrale, e io vedo in questo momento tutti voi ai raggi X, come colonne vertebrali che sorreggono queste custodie di cervelli, e vedo quindi i concetti che si formano nella scaturigine irrappresentabile, dove sono coscienti. La scaturigine dice al cervello quello che ha da dire, il cervello traduce l’intelligibile in cervellese, cioè in algoritmi altamente sofisticati che, attraverso nervi, raggiungono l’apparato della fonazione, in particolare la mia lingua e le mie corde vocali; e il pensiero, attraverso messaggi che nulla hanno a che fare col pensiero (perché sono bioelettrici), mette in moto muscoli, che nulla hanno a che fare col pensiero, e questi muscoli muovono la lingua a far muovere l’aria in un modo sofisticatissimo, e questo linguaggio articolato, fatto di suoni fisici registrabili e registrati, impinge su dei timpani, cioè su delle cose che vibrano meccanicamente nella vostra cellula (frutto della evoluzione della specie e dell’evoluzione dalla cellula all’uomo: ciascuno di voi è la storia di una cellula), essi sono incredibilmente sensibili, e i fenomeni meccanici di questo timpano vengono decodificati da apparecchi sensibilissimi che li trasformano da meccanici in biochimici e bioelettrici, percorrono nervi ottici ai quali quella cellula che ha prodotto il corpo umano ha riservato canali nell’osso, raggiungono zone dei vostri cervelli dove  avvengono fenomeni puramente fisici (cioè arrivano messaggi bioelettrici che nulla hanno a che vedere con i concetti coscienti), e voi capite la parola. Ecco, io non riesco a non inciampare su questo. Se questo avviene, e se lo capiamo fino in fondo, dobbiamo ripercorrere tutta la strada dell’evoluzione, dai nostri antenati del Lago Turkana, del Sud Africa, della Rift Valley, questi babbuini che camminavano su due zampe, e dobbiamo renderci conto che sta succedendo qualcosa di inaudito, forse riservato al nostro pianeta, forse riservato proprio a questa Terra. Noi stiamo mettendo in contatto la materia, antica centinaia di milioni di anni (cioè centinaia di migliaia di millenni: l’uomo ha centinaia di migliaia di millenni di età: quindi, se voi togliete l’era cristiana a centomila millenni, ve ne rimangono 999.998, di millenni; e l’uomo è più antico di così, è antico due o tre volte questo)…siamo immersi nell’inesplicabile presente, nel mistero indubitabile, e ciechi al mistero indubitabile, e io con la mia mente, con la mia scaturigine invisibile, con il mio cervello, con il mio apparato della fonazione (e un pochino anche con il mio “coraggio”, perché dire queste cose in pubblico richiede un minimo di spudoratezza), io suscito in voi degli intelligibili, che sono fisicamente equivalenti ai fenomeni bioelettrici dei vostri neuroni. Questo sta succedendo su questo pianeta. Allora, è talmente più stupefacente l’evento rispetto ai contenuti, che per me passare ai contenuti è sempre una violenza. Io vorrei rimanere sempre assorbito sulla soglia, nella contemplazione dell’evento. Questo evento che non sarebbe possibile se non fossimo nelle vicinanze della stella Sole, se la Terra  non fosse opportunamente riscaldata, se l’acqua non fosse prevalentemente liquida; perché il primordiale è infinitamente gelido, è vicino allo zero assoluto. E se, dopo il medioevo cosmico (cioè dopo il periodo di sole polveri) non ci fossero stati quegli agglutinamenti, simili a quando si formano i grumi di polvere in casa (se volete assistere alla cosmogenesi dovete osservare cosa succede alla polvere sotto i letti quando non si passa la scopa: la polvere diventa un addensato che è esattamente uguale a quello che ci mostrano le fotografie astronomiche delle nebulose dove si formano le stelle. C’è stato tutto in periodo in cui tutto l’Universo era buio è fatto tutto di polveri, e se le polveri non si fossero condensate fino a pressioni che hanno acceso le stelle la luce non sarebbe stata, e senza la luce e il calore il mondo sarebbe un’estensione di ghiaccio infinita, dove i corpi diventerebbero vitrei e fragili. Noi possiamo parlare perché c’è il sole, perché siamo in zone riscaldate opportunamente (non fino a bruciare) dal sole.