Convegno
Progetto ANASTASIS. Prospettive di integrazione
tra servizi e comunità
a sostegno della famiglia in un territorio che
invecchia
Venerdì 24 ottobre 2014 – Lecco
Vivere in una comunità che
invecchia: vissuti, bisogni, desideri
(Leonardo Lenzi)
Chiedere a un
cinquantenne di parlare della vecchiaia è un po’ crudele, perché non può esprimersi
né da dentro né da fuori. Forse è ancora come sulla soglia, ma ogni giorno che
passa si ritrova sempre più dentro. Si accorge con stupore, con terrore, con dolore,
del proprio ingrigirsi. Ogni mattina scopre nuove inconfondibili tracce di
vecchiaia sul suo volto, nel suo corpo, nel suo cuore, perfino nel suo spirito.
E così tanta è la paura che spesso capisce che deve cominciare a correre per
non farsi raggiungere dalla morte, e se uno va al Monte Stella di Milano o
negli anelli del Central Park a New York vede questi uomini, soprattutto uomini
(ma anche donne), correre correre correre con dei volti spesso tristi, spesso
molto tesi, e si dicono: Ho fatto la maratona
in meno di quattro ore! Verso dove corrono, o – meglio – da che cosa
fuggono? I giovani – fatta eccezione degli atleti più o meno professionisti –
non corrono. Non hanno bisogno di fuggire. Se ne stanno acciambellati sul
divano, come se non avessero ossa, magari mangiando Nutella. La mia è l’età in
cui in mezzo alla giornata si pensa: Ecco,
oggi mi sento bene! magari senza accorgersi di come sia terribile.
Scrive Jean Amery, lo
scrittore austriaco sopravvissuto ad Auschwitz e poi morto suicida come Primo
Levi:
Chi dice “mi sento bene”, non è già più del tutto a suo agio, come chi
afferma di sentirsi giovane, non può essere veramente giovane. Chi si “sente”,
bene o male che sia, non sta in maniera ottimale, perché fin quando è veramente
in pieno possesso delle sue forze e vive nella certezza di una corporeità sana,
non si “sente”. Non è in se stesso, bensì (…) è “là”: presso le cose e gli
avvenimenti del mondo. (1)
In questo senso
perdonatemi se parlerò con emozione, con trepidazione, perché non mi sto
occupando di un oggetto ma di un’esperienza – forse la più tragica che gli
esseri umani possano sperimentare – che sto per incontrare, che sto
incontrando, e che mi fa paura.
Vorrei iniziare con una
domanda, anzi, con due. La prima è: a che
età, secondo voi, comincia la vecchiaia? La seconda: quanti, qui tra noi, si ritengono ‘vecchi’? Se provate a rispondere
in modo separato alle due domande, forse potrete notare come le due risposte
possono risultare contraddittorie. Uno può dire: la vecchiaia inizia a 65 anni (per esempio) ed è una risposta
astratta, generale, poi però incontra la seconda questione, si accorge di avere
66 anni e pensa: io vecchio? no di
sicuro!. Ci sono le statistiche che – con la freddezza austera dei numeri –
specificano l’aspettativa media della vita. In Italia per gli uomini è 79.4,
per le donne 84,5. Però se capita sfortunatamente di partecipare al funerale di
un settantacinquenne, non raramente si sentono commenti tipo: è morto giovane, era ancora giovane. D’accordo, è morto quattro anni sotto la media
nazionale, ma si può dire di un settantacinquenne che è morto giovane? E’ interessante, poi, osservare
che la risposta alla prima domanda (quando
inizia la vecchiaia?) varia a seconda dell’età di colui al quale è posta.
Una recente ricerca inglese riporta che le persone sotto i 30 anni pensano che
la vecchiaia inizi prima di 60 anni, gli adulti tra 30 e 49 anni che essa inizi
a 69, quelli tra 50 e 64 che inizi a 72, da 65 in poi che inizi a 74. Ma la
stessa ricerca indica che – qualunque sia l’età in cui lo si chieda –
pochissimi percepiscono se stessi come vecchi.
Per quanto mi riguarda,
io mi sentirò vecchio il giorno in cui un gentilissimo sciagurato ragazzo (o,
peggio, una educata sciaguratissima ragazza) si alzerà a cedermi il posto sulla
metropolitana del mattino. Non è ancora mai accaduto, potrebbe accadere domani.
Ma so che quella metropolitana sarà un oracolo, una macchina del tempo, un
salto quantico, un passaggio fra due stati, fra due condizioni, fra due
esistenze, non solo che tra due stazioni.
E’ evidente che la
vecchiaia è una categoria dai contorni molto fluidi, indistinti. Essere vecchio, sentirsi vecchio: tutti sappiamo che non è la stessa cosa. Poi vi
sono vecchiaie e giovinezze settoriali, c’è chi è fisicamente “giovane”, nel
senso che magari partecipa alla Resegup
e va in montagna salendo con la scioltezza e la velocità di un camoscio, ma
mentalmente è “vecchio”, oppure il contrario. Esistono vecchiaie e giovinezze
artistiche, intellettuali, relazionali, mediche, politiche. Pensiamo a quando
l’attuale Presidente del Consiglio ha utilizzato – per la sua campagna
elettorale all’interno del Partito Democratico – la violentissima espressione rottamare, che tanta presa ha fatto
sugli elettori. E non soltanto su di loro, dal momento che D’Alema (geniale,
grintoso e gelido politico. a capo dei Servizi Segreti, possibile candidato
alla Presidenza della Repubblica) si è abbastanza velocemente trasformato in un
signore canuto, col cappotto, che porta a spasso il cane. E pensate a
Berlusconi, 78 anni, che sconta la sua pena assistendo
gli anziani a Cesano Boscone, immaginate l’incontro tra queste diverse
vecchiaie. Stiamo parlando di vecchiaie che nulla hanno a che vedere con (e
certamente non corrispondono a) i dati brutalmente anagrafici. Segnalo
l’emergere – abbastanza pauroso – della vecchiaia tecnologica, per cui si può
diventare vecchi anche a trent’anni, e forse perfino prima. Il mondo dei
dispositivi elettronici (da alcuni non a caso chiamate ormai protesi, in quanto effettivamente uno
smartphone si inserisce a pieno titolo nello schema corporeo, come gli
occhiali) genera nuovi modelli di vecchiaia. Sopravviverò al prossimo
aggiornamento del sistema operativo, riuscirò a dominare la prossima
applicazione? Oppure la versione più recente sarà pensata da nativi digitali
solo per altri nativi digitali, che hanno davvero la mente diversa, e io dirò: no, questa cosa non la capisco, a me va bene
l’email, va bene il messaggino, ho addirittura Facebook, ora basta, ed
ecco: sono vecchio, si apre il baratro tra me e loro, si spalanca una voragine
che si allargherà ogni giorno, e alla fine non li vedrò più, e tutto il mondo
dove accade il loro scambio mi sarà precluso, proprio come un vecchietto sordo
che siede nel salotto con i nipoti che parlano e – poiché non sente nulla –
continua a dire: eeeeeh? cheeeeee?
La premessa quindi è che
la vecchiaia non è un territorio omogeneo, ma una parola contenitore che
racchiude significati e allude a comportamenti molto differenti. Non c’è una vecchiaia,
ma ci sono molte vecchiaie, così come molte giovinezze. E non ha confini netti,
è come una nuvola. Ci si ritrova dentro. Non conosco il giorno in cui prenderò
quella metropolitana, non conosco ancora il volto di quel giovane (giovane!) che, inconsapevolmente, avrà
lo sguardo e le parole del dio terribile che mi dirà quella verità che non
voglio sentire: a un certo punto accadrà ed ecco, sarò dentro. Perché io non le
vorrei le carte d’argento, non li
vorrei gli sconti riservati agli anziani, pagherei tutto, pagherei il doppio –
se volete – purché mi venisse lasciata la carta
verde.
Ciò premesso vorrei
adesso affrontare, o meglio: avvicinare, con voi alcune questioni riguardanti l’invecchiare. La differenza tra problema e questione (ben sviluppata in molti suoi lavori dal filosofo ed
amico Silvano Petrosino) è che il problema
lo si può in qualche modo risolvere, anche se difficile o difficilissimo:
occorrerebbero più soldi, più competenze, più risorse, più buongoverno, ma lo
si può risolvere. La questione no: è il luogo dell’interrogazione inesauribile,
della domanda senza fine, è un luogo in cui ci si inoltra senza sapere la
strada, un sentiero che si imbocca senza mappe e senza sapere dove ci porterà.
Entrare nelle questioni genera inquietudine, si rimane inquieti e in un certo
modo irrisolti: ma vi sono inquietudini che sono preferibili a false sicurezze
1. Il mito di Aurora e Titone
Una prima questione che
credo debba essere avvicinata riguarda la differenza tra vecchiaia e mortalità.
La mitologia classica – che, come molte antiche narrazioni dell’umano e del
divino, aveva compreso già tutto o quasi tutto – racconta di Eos, l’Aurora, la
dèa meravigliosa dell’inizio rosato del giorno, si innamora, si infatua, si
incapriccia di un mortale, Titone, fratello di Priamo e eroe troiano. Chiede al
padre Zeus di concedere al suo amato l’immortalità, e Zeus la concede,
avvertendola però che non le avrebbe concesso altro. Trascorrono anni d’amore,
fino alla terribile scoperta: Titone invecchia. Eos ha chiesto e ottenuto da
Zeus l’immortalità, ma ha dimenticato di chiedere per Titone l’eterna
giovinezza. Così Titone diventa decrepito, e Eos non può più amarlo e non può
più neppure vederlo: lo rinchiude in una grotta, dove lui grida e grida, invoca
la morte, il dono che non potrà più avere. [Louis-Jean-François Lagrenée dit l’ainé]. Versioni più tarde e più miti
narrano che Eos riesce a trasformarlo in cicala, proprio l’animale del canto
effimero.
Nelle società
tradizionali (non mi riferisco soltanto a quelle primitive, anche a quelle
molto più prossime, fino a poche decine di anni fa), la vecchiaia era
effettivamente il preludio alla morte, forse anche la sua preparazione. Sono
recentemente tornato da un viaggio sul Monte Athos, uno dei luoghi
statisticamente più longevi del pianeta. La vita è dura e scomoda,
prevalentemente notturna e orante, non esiste neppure l’idea di barriera architettonica nei monasteri
dalle mille ripide scale senza corrimano a precipizio sul mare. I monaci si
lavano pochissimo, convinti come sono che chi conduca un’esistenza spirituale
trasformi la sua materia in qualcosa già di semidivinizzato. Insomma, l’asceta,
il santo, non puzza, essendo quasi soltanto anima. Sarà, ma l’igiene lascia a
desiderare. Tuttavia vi sono vegliardi meravigliosi, alcuni circondati da una
luce percepibile anche dai sensi. Quando si ammalano, normalmente non vanno in
ospedale. A un certo punto non li vedono alle liturgie, si va a verificare
nella loro cella nel bosco, e li si trova morti. Si avvolgono nell’abito
monastico e li si seppellisce nella terra o in un sepolcreto. A volte ci si
accorge di una morte dopo anni, trovando le ossa di un anacoreta già bianche e
spolpate in una grotta. Nessun problema, si raccolgono e si dà loro sepoltura.
Nell’attuale occidente
però le cose sono ben diverse, e tutti noi siamo destinati a diventare più o
meno come Titone. La scienza ha già allargato incredibilmente la forchetta
temporale che separa vecchiaia e morte. Potrebbe – in un tempo non lontano –
separarle indefinitamente: anche senza arrivare alle nuove visioni di
immortalità trans-umana (le ibernazioni, il riversamento della coscienza su
supporto digitale, etc), si può pensare a una quasi-immortalità fatta di flebo,
sondini naso gastrici e ventilatori respiratori. I reparti geriatrici
diventerebbero delle immense grotte per altrettanti Titoni, proteggendo il
resto dell’umanità dai loro gridi, anche muti. Forse saremo fra gli ultimi
esseri umani a vedere ancora morti di
vecchiaia (come si dice a Firenze). Sempre più le persone scivoleranno in
una condizione di non-più-vita-non-ancora-morte
e a decidere il momento dell’exitus
saranno altri. Non l’angelo della morte, che viene come un ladro ad ora
incerta, no: un decisore, una comunità di decisori, un comitato di esperti.
Familiari, medici, giuristi, bioeticisti, trapiantologi, psicologi, assistenti
sociali. Oppure un documento scritto da me, ma che comunque dovrà essere
interpretato da altri. E’ quindi necessario – evidentemente – riflettere sui
criteri che verranno considerati per decidere la mia morte, affrontando con
coraggio e senza pregiudizi i problemi relativi alle dichiarazioni anticipate
di trattamento, alla definizione di morte, etc. Chiedendosi cosa è bene tradurre
in norma e cosa invece è meglio lasciare non regolato da leggi. Personalmente
vorrei che i cosiddetti laici
diventassero più materialisti, rendendosi conto del valore e dello splendore
della materia anche quando è lesa, ferita, dolente; e che i cosiddetti cristiani diventassero più spirituali,
difendendo la vita intera: non solo quindi la vita biologica, ma anche quella
futura, quella eterna. Mi piacerebbe vedere i laici inchinarsi davanti
all’essere, alla vita, e i cristiani predicare il paradiso, anziché vedere spesso
i primi anelare al nulla e i secondi aggrapparsi alle increspature di strumenti
che registrano la minima attività elettrica del cervello. Beninteso: so bene
che si tratta di territori delicatissimi, minati, pericolosi. In gioco ci sono
la vita e la morte.
2. Il ritratto di Dorian Gray
Dorian Gray è l’opposto
di Titone. Lui non invecchia, un altro, un’immagine, invecchia al posto suo. Ma
muore.
Quanti anni hai? Mi chiede un’amica. Esito, poi dico: Quanti me ne dai? E lei: Non so: cinquanta, cinquantacinque. Io
sbianco, mi sento svenire, la mia giornata è irrimediabilmente rovinata. E
questo perché ho scoperto di dimostrare
la mia età. La mia vera età. Quanti anni
mi dai? è una domanda che si augura una risposta sbagliata (per difetto). Quaranta, quarantacinque avrebbe dovuto
dire, ed ecco che sarei stato bene.
Ognuno di noi – chi più
chi meno – combatte una battaglia contro il tempo, a colpi di yoga, corsa,
palestra, pilates, botulino, zumba, tintura per capelli, diete macrobiotiche,
ginseng, e chi più ne ha più ne metta. Dimostrare la propria età significa
essere perduti. Così ci affanniamo, mentre il corpo, testardamente, testimonia
contro di noi.
A questo proposito vorrei
dire che le belle parole servono a poco. Ho fatto una ricerca di qualche titolo
di libro di self help
sull’invecchiamento:
- The
Wonder of Aging: A New Approach to Embracing
Life after Fifties
- Conscious
Living, Conscious Aging: Embrace and
Savor Your Next Chapter
- How to
Survive Menopause: Everything You Need to Know to Embrace the Change of Life
- Still
here: Embracing Aging, Changing and
Dying
- Aging: Embrace it!
- Growing
Old And Getting Older: How To Embrace
The Troubles And Joys Of Your Senior Years
Certo, abbracciare
l’invecchiamento, non opporre patetiche e inutili resistenze, accogliere con
saggezza, stile, eleganza l’invecchiamento sarebbe fantastico. Il condannato a
morte lo si vuole dignitoso e fiero mentre si avvicina al patibolo, ed è
d’obbligo non accettare il cappuccio o la benda. Un momento, un solo altro momento, altrimenti mi difendo, mordo!
grida il condannato di Victor Hugo: è così che vanno le cose per davvero. La
debolezza, le malattie (dalle quali si guarisce, ma anche no, perché nella
vecchiaia ogni malattia lascia un segno e segna un passo avanti irrevocabile,
anche quando si guarisce), la mente che si sbanda, tutto questo lascia poco
spazio alle parole auto consolatorie.
Del resto il poeta
gallese Dylan Thomas lo cantava (e intendo questo in senso letterale, perché si
tratta di una villanella ossia di un
componimento che esige il canto):
Do not go gentle into
that good night,
Old age should burn
and rave at close of day;
Rage, rage against the
dying of the light.
Non andare docile in quella notte
benevola
La vecchiaia dovrebbe bruciare
fervida al cadere del giorno
infuriati, infuriati contro il
morire della luce
Non è possibile entrare
nel nulla senza gridare contro la luce che si spegne. Sarebbe meglio incontrare
la verità piuttosto che illudersi con vecchiaie sorridenti e a tinte pastello.
Scrive ancora Amery, alla fine del suo denso e dolorosissimo libro
sull’invecchiare:
A è riuscito a turbare l’equilibrio, a svelare il compromesso, a
distruggere il quadro di genere, a scacciare la consolazione? Lo spera. I
giorni si assottigliano e si prosciugano ed egli ha sentito il desiderio di
dire la verità. (2)
Nel video che vedrete durante questo Convegno
vi è certamente tanta allegria, ma è l’allegria di un naufragio. I caregiver stanno attorno a vecchi re e
regine che stanno andando in esilio dal mondo (come direbbe Arno Geiger ne Il vecchio re nel suo esilio, la
narrazione del rapporto con il padre malato di Alzheimer), sono attorno a delle
grandi, vecchie navi che si allontanano sempre più – e irreversibilmente –
dalla costa, vecchie navi che naufragano, che vanno in pezzi: infatti il video
è pieno di oggetti, di pezzi, di ingranaggi, oggetti struggenti, memorie
materiali, ma tutto sfugge, e gli oggetti rimangono lì nel loro struggimento.
Nella brochure cartacea la sedia è raffigurata vuota, pur con tutti gli oggetti
intorno. Il naufragio è avvenuto, la nave è ormai così lontana da non lanciare
più alcun messaggio, rimangono gli ostinati oggetti con il loro durare.
Però è vero: la vecchiaia
deve bruciare fervida al cadere del giorno. E’ come se avessimo perso la
sapienza del tramontare. Il punto è che non è possibile tramontare senza che
qualcos’altro – qualcun altro – sorga. Nel Vangelo, il vecchio Simeone può
congedarsi dalla vita, può tramontare, solo nel momento in cui vede lo spuntare
di una nuova luce. Se la vita non è generativa (sul concetto di generatività rimando ai numerosi lavori
di Mauro Magatti e soprattutto Chiara Giaccardi) non può neppure tramontare.
Senza ‘figli’ (e dico ‘figli’ in ogni senso) si è condannati a far luce, non
possiamo lasciarci bruciare fervidi al cadere del giorno
Non vanno scartate
inoltre vecchiaie creative, vecchiaie alternative. La vecchiaia è
caratterizzata dal restringersi delle possibilità. Ancora Amery (pp. 83-84). E’
inevitabile?
Scrive lo scrittore,
anch’esso austriaco, Stefan Zweig:
Così gli anni scorrevano, lavorando e viaggiando, imparando, leggendo,
collezionando e gustando. Una mattina del 1931 mi sono svegliato: avevo
cinquant’anni (…). E’ così che nel giorno del mio cinquantesimo compleanno dal
più profondo del cuore ho espresso un solo desiderio temerario: che succedesse
qualcosa che mi strappasse a queste sicurezze e agli agi, che mi obbligasse non
solamente a continuare bensì a ricominciare (…). Era solo un pensiero fuggevole
che mi sfiorava come un soffio, forse non essendo affatto un pensiero davvero
mio, ma di un altro, scaturito da profondità a me sconosciute (3)
Nell’India tradizionale
vigeva la regola delle varie fasi (ashrama)
della vita. Fino a 24 anni vita
casta, obbediente, disciplinata, ai piedi del proprio Maestro. Da 24 a 48 si
mette su famiglia, si fanno figli, si partecipa alla vita del mondo, si educano
i figli e li si sistemano, si restituisce alla società quel che ci ha dato. Da
48 a 72 ci si ritira gradualmente dal mondo, e dopo si lascia ogni cosa per
diventare un asceta errante, senza casa né famiglia, alla sola ricerca
dell’illuminazione. E’ chiaro che in alcun modo lo stile dell’India
tradizionale è riproducibile nell’Italia di oggi: ma credo che potrebbero
ugualmente essere immaginate esistenze che includono una vecchiaia creativa,
generativa. Per utilizzare una metafora informatica, sovrascrivere l’hard disk della propria esistenza, ricominciare e
non soltanto continuare, prigionieri di quella maschera sociale che ti sei
costruito e adesso ti soffoca, può essere forse possibile: a condizione di
saper morire e rinascere, perché ciascuno di questi passaggi non è meno di una
morte.
3. Proust e la madeleine
Conclusivamente, vorrei
provare a spendere qualche parola sulla cosiddetta demenza, dal momento che il Progetto Anastasis è costruito per
offrire cura a persone affette da questa malattia che – come ogni malattia, del
resto – è in parte costruzione sociale e in parte un dato organico. D’altra
parte io di Alzheimer non so niente, se non quello che tutti sanno, se non per
aver letto qualche libro e ascoltato qualche testimonianza.
Come ho già detto, vedo
queste persone come navi che sono così tanto al largo da non poter più
comunicare se non qualche minimo messaggio che – chissà come – supera
l’incolmabile distanza e ci rivela che in realtà quella che noi chiamiamo assenza è un tempo vissuto, ma di quel
vissuto noi non abbiamo i codici, non sappiamo decifrarlo: per cui chiamarlo assenza è una semplificazione.
Contemporaneamente essi sono simboli efficacissimi del mondo, precisamente del
nostro mondo, che – come questi uomini e queste donne – nell’arco di poche
decine di anni ha smarrito la memoria di ciò che ha costituito i suoi riferimenti,
e ora è attonito e spaventato, non sentendosi più a casa neppure nel suo letto,
e avvertendo qualunque cosa come potenzialmente minacciosa.
Naturalmente io non ho,
non dico ricette, ma neppure delle vere e proprie opinioni. Visto però che
abbiamo proceduto finora per riferimenti letterari, consentitemene brevemente
ancora uno, molto famoso. Si tratta del momento in cui l’Io narrante della Recherche assaggia il dolce inzuppato
nel tè.
Una sera d’inverno, appena rincasato, mia madre accorgendosi che avevo
freddo, mi propose di prendere, contro la mia abitudine, un po’ di tè. Dapprima
rifiutai, poi, non so perché, mutai parere. Mandò a prendere uno di quei dolci
corti e paffuti, chiamati maddalene, che sembrano lo stampo della valva
scanalata di una conchiglia di San Giacomo. E poco dopo, sentendomi triste per
la giornata cupa e la prospettiva di un domani doloroso, portai macchinalmente
alle labbra un cucchiaino del tè nel quale avevo lasciato inzuppare un pezzetto
della maddalena. Ma appena la sorsata mescolata alle briciole del pasticcino
toccò il mio palato, trasalii, attento al fenomeno straordinario che si
svolgeva in me. Un delizioso piacere m’aveva invaso, isolato, senza nozione di
causa. E subito, m’aveva reso indifferenti le vicessitudini, inoffensivi i
rovesci, illusoria la brevità della vita…non mi sentivo più mediocre,
contingente, mortale. Da dove m’era potuta venire quella gioia violenta ?
Sentivo che era connessa col gusto del tè e della maddalena. Ma lo superava
infinitamente, non doveva essere della stessa natura. Da dove veniva ? Che
senso aveva ? Dove fermarla ? Bevo una seconda sorsata, non ci trovo più nulla
della prima, una terza che mi porta ancor meno della seconda. E tempo di
smettere, la virtù della bevanda sembra diminuire. E’ chiaro che la verità che
cerco non è in essa, ma in me. E’ stata lei a risvegliarla, ma non la conosce,
e non può far altro che ripetere indefinitivamente, con la forza sempre
crescente, quella medesima testimonianza che non so interpretare e che vorrei almeno
essere in grado di richiederle e ritrovare intatta, a mia disposizione ( e
proprio ora ), per uno schiarimento decisivo. Depongo la tazza e mi volgo al
mio spirito. Tocca a lui trovare la verità…retrocedo mentalmente all’istante in
cui ho preso la prima cucchiaiata di tè. Ritrovo il medesimo stato, senza
alcuna nuova chiarezza. Chiedo al mio spirito uno sforzo di più…ma mi accorgo
della fatica del mio spirito che non riesce; allora lo obbligo a prendersi
quella distrazione che gli rifiutavo, a pensare ad altro, a rimettersi in forze
prima di un supremo tentativo. Poi, per la seconda volta, fatto il vuoto
davanti a lui, gli rimetto innanzi il sapore ancora recente di quella prima
sorsata e sento in me il trasalimento di qualcosa che si sposta, che vorrebbe
salire, che si è disormeggiato da una grande profondità; non so cosa sia, ma
sale, lentamente; avverto la resistenza e odo il rumore degli spazi
percorsi…All’improvviso il ricordo è davanti a me. Il gusto era quello del
pezzetto di maddalena che a Combray, la domenica mattina, quando andavo a darle
il buongiorno in camera sua, zia Leonia mi offriva dopo averlo inzuppato nel
suo infuso di tè o di tiglio….
Io immagino – forse
soltanto sogno – che alle persone con demenza possano essere offerti momenti proustiani.
Essi in primo luogo passano dai sensi puri, dal gusto, dal sapore di un
biscotto inzuppato nel tè. Ma la sensazione innesca un percorso di liberazione
del ricordo dalla prigionia del tempo, un percorso difficile, non immediato, ma
possibile. Non so – e lo chiedo a chi parlerà da adesso in poi – se è
realistico per un prestatore di cura, un familiare, un operatore o
un’operatrice, propiziare al malato di Alzheimer esperienze proustiane e
ritrovarsi con lui in una misteriosa Combray, in parte ricordata, in parte
trasognata.
Grazie.
(1) Amery J (1998), Rivolta e rassegnazione. Sull’invecchiare, Torino: Bollati
Boringhieri, p. 56.
(2) Amery J (1988) p. 149
(3)
Zweig
S (2000), Il mondo di ieri.
Ricordi di un europeo, Milano: Mondadori
Sfondo
Bibliografico
Amery
J (1998), Rivolta e rassegnazione. Sull’invecchiare, Torino: Bollati
Boringhieri
Augè
M (2014), Il tempo è senza età. La vecchiaia non esiste, Milano: Cortina
Geiger
A (2012), Il vecchio re nel suo esilio,
Milano: Bompiani
Zweig S (2000), Il
mondo di ieri. Ricordi di un europeo, Milano: Mondadori