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lunedì 1 giugno 2015

Fame dell'Altro, fame dell'Oltre. A "Mangiocando"


MANGIOCANDO
cibo, cultura, età della vita
28 maggio 2015

Leonardo Lenzi
Fame dell’Altro, fame dell’Oltre
Nutrirsi come questione antropologica e teologica


                Vorrei iniziare il mio intervento con qualcosa che forse potrebbe risultare disturbante. Ciò che dirò ha a che fare con la fame, una parola che in questa parte del mondo giunge addomesticata, tranquilla. Come nota lo scrittore argentino Martìn Caparròs (Caparròs M, La fame, Einaudi 2015), in questa parte del pianeta abbiamo fame due o tre volte al giorno e, quando la avvertiamo, la salutiamo allegramente, non essendo per niente difficile tacitarla: anzi, è piacevole, è divertente farlo.




Salvo rarissime eccezioni siamo tutti nelle condizioni della giallovestita signora della pubblicità dei cioccolatini, madre di tutti i doppi sensi pubblicitari: non è proprio fame, è un languorino, una voglia di qualcosa di buono, e con maggiore o minore prontezza c’è sempre un Ambrogio a offrirci la possibilità della soddisfazione di questa voglia. Attraversando Milano in questi giorni di Expo non si è quasi in tempo di provarlo, il languorino, tanto il cibo in ogni forma è onnipresente, ed entra anche dagli occhi sotto forma di immagini, di suoni. Si rischia di fare indigestione anche solo passeggiando per la città. Non solo: basta aprire Facebook per vedere centinaia di prelibatezze fotografate, perché ormai il cibo prima di mangiarlo si fotografa e si condivide. Si condivide: ma in foto.



Ma –scrive Caparròs – tra la fame ripetuta, quotidiana, saziata ripetutamente e quotidianamente che viviamo noi, e la fame (“el hambre”) disperante di chi non può soddisfarla, c’è tutto un mondo. Non è che non sappiamo che ogni giorno, ogni giro del pianeta sul proprio asse, ogni 24 ore oltre 25000 persone muoiono per ragioni connesse alla fame. Tragicamente e brutalmente Caparròs si chiede: ¿Cómo carajo conseguimos vivir sabiendo que pasan estas cosas?

Possiamo: perché una cosa è sapere, un’altra è realizzare, come mi ha insegnato il mio maestro, Luigi Lombardi Vallauri. La differenza tra nozione e realizzazione sta nel fatto che ciò che realizziamo ci coinvolge esistenzialmente, ci fa trasalire: Oddio, le cose stanno proprio così! Per esempio noi sappiamo che moriremo ma, magari solo una volta nella vita, con una palpitazione dell’anima realizziamo che veramente moriremo. E’ stato detto che in principio era il pasto. Forse. In principio c’è anche il fuoco, c’è la morte (e il culto dei morti). Ma direi che in principio era l’angoscia, e quel fortissimo dolcissimo nostro nonno appena affrancatosi dai primati, con la stazione incertamente eretta e il pollice che si opponeva abbastanza, quel nonno per cui io prego ogni sera, quel vero Adamo che ha guardato le stelle e con una strana sensazione allo stomaco ( ! ) scopre di essere soggetto separato dal mondo, e s’impaura. La prima, grande realizzazione. Poi, magari fortunatamente, la realizzazione scompare e la morte torna a essere semplicemente una nozione, anche piuttosto banale: Tutti gli uomini sono mortali, Leo è un uomo, dunque Leo è mortale, ciò che gli studiosi di filosofia definirebbero un sillogismo di prima figura in barbara, quanto di esistenzialmente più innocuo si possa concepire. Per propiziare una realizzazione, cioè un sapere intensivo e esistenzialmente coinvolgente, che faccia da sfondo a quanto sto per dire, mi sono procurato un metronomo. Non essendo riuscito a trovare un metronomo vero, ho scaricato un’applicazione per il mio smartphone. Ho impostato il metronomo sul ritmo di 17 battute al minuto: ogni battuta corrisponde a un essere umano, una donna, un uomo, una bimba, un bimbo, che in quel medesimo istante muore di fame. Perché, se fate i conti, è proprio così: ogni minuto ne muoiono 17. Ecco, ora lo attivo. […]

Mentre discutevo questa idea con altre persone, emergevano due diverse possibili reazioni. La prima era il fastidio, la difficoltà o l’impossibilità di seguire il contenuto di un discorso con questo sottofondo. La seconda era l’abitudine: dopo un po’ potrei scoprire di non sentire più il ticchettio, il mio cervello lo rimuove, lo annulla. Ebbene, queste sono esattamente le reazioni che emergono quando si presenta alla nostra coscienza un contenuto impresentabile e drammatico come el hambre: lo rimuoviamo o ne siamo sopraffatti. Forse avrei potuto soltanto chiedervi di chiudere gli occhi e fare consapevolezza per 45 minuti di questo larghetto di morte, osservando ciò che vi accade dentro. Il mio spazio si sarebbe trasformato in una performance realizzativa. Ora, mi sarebbe piaciuto, ma temo sia un’eccentricità alla John Cage che non posso permettermi, o forse sono solo troppo poco self confident per provarci. Nulla vieta però a voi di sperimentarlo a casa, individualmente o in gruppo.

Abbiamo sempre mangiato: prima di parlare, prima di camminare, prima di vedere. Da neonati il seno materno era dio. Non lo dico metaforicamente, ma letteralmente: era dio. Morbido, caldo, accogliente, e soprattutto nutriente. Era dio. Abbiamo vissuto in un eden, e – come ben sanno i nostri mitici progenitori – dall’eden si viene sfrattati presto (non a caso a causa dell’aver mangiato ciò che è vietato). Così siamo stati svezzati, s-viziati. Questo percorso di individuazione rispetto alla simbiosi edenico-alimentare con il seno materno è evidentemente delicato e drammatico: il seno materno ritorna nei nostri sogni, talora nei nostri incubi



Straordinario l’episodio del film di Woody Allen Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere (1971) in cui lui viene inseguito da una gigantesca tetta assassina che cerca di ucciderlo con spruzzi di latte, e davanti alla quale brandisce – a mo’ di esorcismo – il crocefisso). Il seno materno e il desiderio di ritornarvi e di abbandonarvisi ci sarà sempre: e fortunatamente Odisseo forza i compagni a sottrarsi dagli incantati lotofagi, dimentichi di tutto, perché rimanere renderebbe impossibile l’avventura umana. E un cherubino armato di una spada fiammeggiante ci vieta il ritorno al giardino di Eden.




Nella narrazione biblica lo s-viziamento arriva dopo pochissime pagine dall’inizio I progenitori potevano mangiare tutto eccetto del frutto del famoso albero del bene e del male, ma fuori dall’Eden il rapporto col cibo diventa complicato e sofferto, procurarselo significa estrarlo con dolore da un suolo maledetto.

Bisogna pur mangiare (Riva F, Filosofia del cibo, Castelvecchi 2015). Questo terribile dovere di procurarci il cibo, pena il cessare di esistere, questa necessità di estrarlo con dolore dal seno ora maledetto della terra è di una tragicità che raramente noi riusciamo a cogliere. Sono stato recentemente in Russia, e – poiché mi ero perduto nell’immensa Mosca – ho chiesto un’informazione stradale, trovando un signore che parlava inglese. Alla fine l’ho ringraziato, ma lui mi ha detto molto gentilmente: Five bucks, please. I’m sorry, but I don’t eat ‘thankyous’. Cinque dollari, o euro, non so: mi scusi, ma io non mangio “grazie”. Bisogna pur mangiare.

Le filosofie e le religioni hanno da sempre e acutamente avvertito il peso atroce di questa necessità, e hanno pensato, desiderato e sognato modi per affrancarsene. Gli angeli non mangiano. C’è una brutalità spaventosa insita in quest’atto universale. Tutta l’etichetta, il galateo, le buone maniere a tavola, tutto ciò nasce come un tentativo fallito in partenza di renderlo tollerabile. Non si tratta in prima battuta di una questione morale: certo, la gola viene condannata e stigmatizzata, ma si capisce che il fondamento di questa resistenza è ben più profondo. E’ che si percepiva l’orrore di questo ingerire, ingurgitare, masticare il mondo, triturare, gettare nelle nostre interiora altre forme, altre vite, talora senzienti.



Così Palomar, il protagonista osservatore malinconico di una serie di racconti di Italo Calvino (Calvino I, Palomar, Mondadori 1994), un giorno entra in una macelleria:

Dietro il banco, i macellai biancovestiti brandiscono le mannaie dalla lama trapezoidale, i coltellacci per affettare e quelli per scorticare, le seghe per troncare gli ossi, i batticarne con cui premono i serpeggianti riccioli rosa nell’imbuto della macchina trituratrice. Dai ganci pendono corpi squartati a ricordarti che ogni tuo boccone è parte di un essere alla cui completezza vivente è stato arbitrariamente strappato

Senza assolutamente entrare nella questione molto complessa e delicata (dal punto di vista etico e antropologico) relativa alla scelta fra alimentazione carnivora o vegetariana, è per me sufficiente soffermarmi sulla forma perfetta, integra, meravigliosa di una mela.




Se neppure una volta ci siamo soffermati con costernazione e anche con un sentimento quasi di inevitabile colpa prima di addentare una mela forse non potremo mai capire verso quale fondo oscuro, ferino e terribile ci possa condurre una riflessione sulla fame e sul cibo. L’essere vive a spese dell’essere in un ciclo di voracità che sembra non interrompersi mai. L’uomo è ciò che mangia e mangia ciò che è (er ist was er ißt und ißt was er ist) (Riva 2015)

Se questo è vero, si può dire però che l’uomo è anche – soprattutto – ciò che ‘non’ mangia (Niola M, Homo dieteticus. Viaggio nelle tribù alimentari, Bologna: Il Mulino, 2015; Riva 2015). L’uomo, è possibile sorprenderlo nell’atto dell’astenersi da certi cibi: si va dal tabu transculturale del cannibalismo (di cui il nostro profondo mantiene tracce evidenti: c’è chi dice che il bacio stesso, lungi dall’essere l’apostrofo rosa nell’espressione ‘T’amo’, come dicono il Cyrano di Rostand e milioni di baci perugina, sia nient’altro che la sublimazione di un originale cannibalismo; certo è che in alcuni sguardi soprattutto di zie davanti a paffuti pargoletti io ho visto più appetito che affetto; non solo negli sguardi, anche nelle parole: ti mangerei di baci) alle astensioni religiose, alla ahimsa indiana ed rappresentata nel suo estremo nel giainismo, dove gli asceti muoiono di inedia pur di non commettere violenza alcuna, alla kasherut ebraica, ai digiuni che fanno parte di ogni tradizione religiosa, inclusa quella ebraica, cristiana e islamica, alle sante anoressie, religiose e anche no (come l’anoressia sociopolitica di Simone Weil), alle diete contemporanee, problematiche – come si vedrà – e con possibili derive patologiche.

L’uomo è ciò che mangia / L’uomo è ciò che non mangia. Ancora una volta riflettere sul cibo rinnova la domanda che Israele si pone nel deserto, quando – evaporata la rugiada – trova sul terreno una sostanza sconosciuta e commestibile.



 Man hu? Che cos’è? (Es 16, 16-18) : Quando i figli di Israele la videro si dissero l’un l’altro: ‘Che cos’è’? perché non sapevano cosa fosse. E Mosè disse loro: ‘Questo è il pane che l’Eterno vi ha dato da mangiare. Che cos’è il cibo, ma anche che cos’è l’uomo, che di fronte al cibo si trova – come del resto di fronte a tutto – perplesso, invischiato in un dilemma : cos’è il cibo, come devo prenderlo, cosa sono io che lo mangio ? Infatti le prescrizioni alimentari relative alla manna hanno a che fare sia con la concessione gratuita e celeste del cibo (il pane che il Signore vi ha dato) che con la limitazione della voracità: gli Israeliti non possono prenderne se non in modo che non ne avanzi fino al mattino, altrimenti essa si riempie di vermi e imputridisce. E’ inevitabile che perfino questo, perfino il pane che ogni giorno miracolosamente Dio fa scendere nel deserto, non basti all’uomo. Che infatti presto mormora, protesta. I figli di Israele ripresero a piagnucolare e a dire: “Chi ci darà carne da mangiare? Ci ricordiamo dei pesci che in Egitto mangiavamo gratuitamente, dei cetrioli, dei meloni, dei porri, delle cipolle e degli agli. Ma ora l’intero essere nostro è inaridito; davanti ai nostri occhi non c’è nient’altro che questa manna (Num 11, 4b-6). La collera dell’Eterno divampa, schiacciando ancora una volta Mosè nel suo tragico ruolo di mediatore tra un Dio permaloso e collerico – che sembra ancora non aver preso le misure rispetto alla natura umana – e un popolo, il suo popolo, incredulo e di testa dura. E allora Dio dice: Volete mangiare carne? Frignate perché non avete carne? Ebbene ne avrete, e non per un giorno, non per una settimana, io vi darò così tanta carne che – letteralmente – vi uscirà dalle narici e vi verrà a noia. Ed è straordinario che a questo punto perfino Mosè dubita di questo Dio smargiasso, e lo mette in guardia: Questo popolo conta seicentomila adulti, la sua voracità è senza fine. Si possono uccidere greggi e armenti in modo che ne abbiano abbastanza? O si radunerà per loro tutto il pesce del mare in modo che ne abbiano abbastanza? Mosè intende dire che non ne avranno mai abbastanza. Ma il Signore fa salire un vento e getta sull’accampamento di Israele un’infinità di quaglie, tanto che è scritto che chi ne prese di meno ne ebbe quaranta chili. Ma il Dio con cui questa parte della Scrittura ha a che fare – lo abbiamo accennato – è un Dio ancora giovane, bellicoso, passionale e feroce. E infatti: Avevano ancora la carne fra i denti e non l’avevano ancora masticata, quando lo sdegno del Signore si accese contro il popolo e il Signore percosse il popolo con una grandissima piaga. Quel luogo fu chiamato Kibrot-Taava (sepolcri avidi), perché qui fu sepolta la gente che si era lasciata dominare dall’ingordigia. Che significa? La Bibbia è piena di queste stranezze, perché ad essere strano – come tante volte dice il Professor Petrosino che interverrà questo pomeriggio – è l’uomo stesso. Forse uno degli argomenti che provano l’origine divina della Scrittura è che solo il Creatore dell’uomo può conoscerlo così bene nella sua contraddittorietà. In questo caso sì, l’uomo ottiene quanto il suo godimento desidera, ma questo stesso godimento non si può neppure realizzare, esso muore con la carne tra i denti non ancora masticata.

L’uomo abita questa tensione, questa lacerazione tragica. E’ ciò che mangia, e contemporaneamente ciò che non mangia, quindi non si sa bene cosa sia. Ancora Palomar

Pur riconoscendo nella carcassa di bue penzolante la persona del proprio fratello squartato, nel taglio della lombata la ferita che mutila la propria carne, egli sa di essere carnivoro, condizionato dalla sua tradizione alimentare a cogliere da un negozio di macellaio la promessa della felicità gustativa, a immaginare osservando queste trance rosseggianti le zebrature che la fiamma lascerà sulle bistecche alla griglia e il piacere del dente nel recidere la fibra brunita.
Un sentimento non esclude l’altro: lo stato d’animo di Palomar che fa la fila nella macelleria è insieme di gioia trattenuta e di timore, di desiderio e di rispetto, di preoccupazione egoistica e di compassione universale, lo stato d’animo che forse altri esprimono nella preghiera.

Come si esce da questo dilemma? Occorre dire che filosofie e religioni non aiutano. Se prescrivono il digiuno, dall’altra parte il banchetto – anche sacrificale – è un modo, se non il modo, per entrare in comunicazione col divino. La via ascetica è raccomandata, ma sotto-sotto si capisce che c’è una via segreta, tantrica, prediletta, che invece ha a che fare con gli eccessi anche più terribili.



Il buddhismo comprende tutto: dal mangiar nulla – o quasi nulla – al mangiare il mondo, nutrirsi di tutto, di carne umana, di cadaveri, a dimostrazione che un’elevata condizione spirituale si fa beffe delle regole e divinamente le capovolge, fino ad usare lo stesso peccato come combustibile energetico verso l’illuminazione. Anche il cristianesimo conosce queste polarità, da una parte l’asceta digiunatore del deserto, o la mistica che si nutre solo di eucarestia, e dall’altra il dichiarare tutti i cibi puri e creare una vera cultura della buona tavola. In fondo questo risale alle origini. A chi paragonerò gli uomini di questa generazione? E a chi somigliano? Sono simili ai fanciulli nelle piazze e gridano gli uni agli altri, dicendo: ‘Noi vi abbiamo suonato il flauto e non avete ballato, vi abbiamo cantato dei lamenti e non avete pianto’. E’ venuto infatti Giovanni Battista che non mangia pane né beve vino, e voi dite: ‘Egli ha un demone’- E’ venuto il Figlio dell’uomo che mangia e beve, e voi dite: ‘Ecco un mangione e un beone, amico dei pubblicani e dei peccatori’. E anche l’islam non è estraneo al dilemma: si pensi solo all’importanza del vino e dell’ebbrezza (rigorosamente vietate) nella via pazza d’amore del derviscio. Non che non ci siano santi e filosofi che raccomandino l’equilibrio, la moderazione, il compromesso: ma c’è qualcosa che ce li fa sentire un po’ fasulli. Un po’ come quella comunità nordica e protestante che accoglie la Babette di Karen Blixen, grande chef al Cafè Anglais fuggita da Parigi in incognito, che per sdebitarsi investe tutto il denaro di una vincita per preparare una cena incredibile a base di brodo di tarataruga, blinis Demidoff, e le inimitabili quaglie en sarcophage, quasi firma dell’artista. Il cibo sconvolge di piacere la vita moderata e sensata, il gusto li esalta, il vino li inebria, fino a che uno di essi dirà che in quella sera rettitudine e felicità si sono baciate.

Ho preparato questo intervento in un dialogo costante con un’amica, che è qui presente, la dottoressa Margherita Tassi. Margherita segue una disciplina spirituale che prevede molte astensioni, in particolare dalla carne, dall’alcool, dagli intossicanti. Contemporaneamente lei sente che è attraverso il corpo che è chiamata a incontrare il mondo e i suoi bassifondi, i suoi dolori. Allora non può negare che ci sia una contraddizione tra la logica immunitaria – che presiede alla sua via spirituale – e la logica comunitaria – che guida il suo agire quotidiano.

E dilemma si aggiunge a dilemma.



La blogger Flavia Gasperetti (Gasperetti F, “Una caponata ci seppellirà, ovvero come il food ha ucciso il cibo” in The Brain that Drained, flaviagasperetti.wordpress.com) elenca in modo molto divertente i teneri dubbi del foodie. La ricotta confezionata alla meglio da un vecchio pecoraio avvinazzato sotto la tangenziale o il ristorante tristellato? Il foie gras – che certo non è animalista ma vuoi mettere la grande tradizione che c’è dietro – o la cucina vegana e nonviolenta? Il kilometro zero o il commercio equo e solidale? La filiera trasparente o la conserva prodotta da mani mai sfiorate da un controllo qualità? Il Bio a tutti i costi o gli OGM che forse salverebbero dalla morte intere popolazioni?




E dilemma si aggiunge ancora a dilemma. Perché è giusto pensare a nutrirsi ‘bene’, a nutrirsi in modo ‘sano’. E’ giusto difendersi dall’obesità e dagli svantaggi clinici e sociali che da essa derivano. E’ giusto mettere in atto le cosiddette tecnologie del Sé (Niola 2015), tutte le competenze, esperienze, conoscenze, comportamenti tesi a prendersi cura del proprio corpo e che ci rendono sempre più sani, belli, attivi, giovani, longevi, potenzialmente immortale. E’ giusto dichiarare guerra ai radicali liberi. E’ giusto: anche se magari nel prossimo DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders),sarà inclusa, come patologia mentale, anche l’ortoressia (da orthos: corretto e orexis: appetito), ossia quell’ossessione per le regole alimentari, per la scelta dei cibi, per le loro caratteristiche. L’eccesso di salute produce malattia.



Come giustamente sottolinea Niola, la nostra sta diventando una alimentazione in levare. Senza uova, senza latte, senza sale, senza zucchero, senza grassi, senza colesterolo, senza carboidrati, senza lieviti. Hanno perfino agito sul sacro, facendo ostie gluten free.




 Hanno agito sull’arte, facendone una versione gluten free (non so se ironicamente: lo spero)



Ci si chiede in siti ufficiali (celiacdisease.about.com) se un celiaco o una celiaca possa baciare il partner se ha appena mangiato cibi contenenti glutine, se ha bevuto una birra, se usa dentifricio o collutorio che contengono glutine, se usa rossetti contenenti glutine. E – bontà sua – ricorda alle anime innocenti (sic) che questo non vale per il bacio sulla guancia dato alla nonna.



Se qualcuno è interessato a sapere cosa fare, ebbene occorre che il partner prima di baciarvi si lavi accuratamente il cavo orale con prodotti gluten free e che i suoi cosmetici (vale anche per il make-up) siano gluten free. Si raccomanda anche (giuro) di spazzolarsi accuratamente i baffi per evitare che alcune microbriciole siano rimaste attaccate. How romantic! Siamo al delirio immunitario, e lo dico da celiaco.

Perché il nostro nemico non è più la fame, ma l’abbondanza, col suo corteggio di sensi di colpa, di fobie, di allergie, di intolleranze.




La nostra vita sta diventando una cucina “senza”. Una continua sottrazione alimentare. L’opposto di quella dei nostri genitori, che era tutta un’addizione. La differenza è che loro avevano fame di vita, mentre noi della vita abbiamo paura. (Niola 2015)

Perché anche qualora tutto vada a posto con il nostro girovita, resta il problema della nostra vita. Dove sta andando?




Ora che all’occhiuto triangolo divino si è sostituita la piramide alimentare, ora che la nostra etica si trasforma in diet-etica (che non è affatto una daiet etica, un’etica leggera, anzi, è esigente, cupa, severa, spesso perfino tirannica), qual è lo scopo della nostra vita. E’ veramente la longevità? E’ veramente il benessere? Non ci viene il dubbio che l’uomo dia il meglio di sé proprio in un disequilibrio? Che le scintille di senso si sprigionino proprio quando esso è schiantato da Dio, dalla sorte, dal caso, insomma quando è spezzato sugli scogli appuntiti dell’esistenza? Van Gogh riempiva la cavità oscura del suo stomaco con pessimo liquore d’assenzio: e certo non osservava la dieta mediterranea. E’ morto a trentasette anni. Eppure il suo sguardo trasfigurava in bellezza suprema i cieli, i corvi, i campi di girasoli. Perché non è vero che prima di tutto viene la salute. Se volete fare un’esperienza interessante – io l’ho fatta – andate a sedervi una sera, dopo le 18, su una panchina della montagnetta di san Siro. Assisterete all’incredibile spettacolo dei runners, cioè di quelli che corrono, corrono, corrono. Vestono di colori smaglianti, fosforescenti, hanno cuffiette con musica che favorisce l’allenamento e fasce elastiche per gli smarthphone con l’applicazione che registra tutto, dal battito cardiaco alle calorie consumate. Prevalentemente sono uomini e donne dai quarant’anni in poi. I loro figli diciottenni – posto che non siano atleti semi-professionisti – non ci vanno mica, a correre. Se ne stanno spetasciati (come se non avessero ossa) sul divano a chattare su whatsapp e a ascoltare spotify. Ma dopo i quarant’anni ecco che si comincia a pre-sentire la fine, la morte. Allora si comincia a correre, perché la morte non ci prenda, e si guardano i tempi, si confrontano con quelli fatti l’anno prima, perché la morte è veloce e potrebbe raggiungerti. Un caro amico – che fa le maratone – mi diceva che nell’ultima decina di kilometri della gara quello che senti è che qualcosa, da dentro, ti sta mangiando. Che stai mangiando te stesso attraverso la fatica.

Che cos’è questa nostra vita? La domanda sul cibo (man hu? che cos’è?) esplodendo in innumerevoli domande che non possono avere risposta, ci ha ricondotto qui. Il mio intervento vorrebbe essere come una premessa a quello che sperò dirà il professor Petrosino, mostrandoci se e come è possibile rimanere umani dentro il collare tragico della fame e della necessità di mangiare, ed esplorando il salto di senso – già proposto da Emmanuel Levinas – tra bisogno e desiderio, ossia riconoscendo nell’urlare del bisogno il levarsi di un desiderio perfino più grande, un desiderio propriamente umano: cioè un desiderio infinito.

Quanto a me, vorrei tornare all’inizio, alla condizione terribile che – in questo istante – stiamo vivendo. A pochi metri da noi la celebrazione del cibo, del gusto, della vita, ma – nelle nostre orecchie – il ticchettare lugubre che scandisce il larghetto della morte per fame. Ascoltiamolo ancora per qualche secondo. […]




(Nel tempo di questo mio intervento sono morte di fame 756 persone, durante questo Convegno ne moriranno 7140, alla fine dell'Expo ne saranno morte 4.504.320)


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